Ortigia era un quartiere malfamato. Questo bisogna capirlo. Ci venivano solo i credenti per le feste della santa, i cittadini nostalgici di una bellezza perduta e gli antagonisti, che erano null'altro che bambini babbi, i quali, presto, anzi, subito, volevano uscire da soli per andare lì. E questo perché era importante poter dire che eri andato lì, perché quando eri lì, ti sembrava di vagare nell'avventura di una fortezza abbandonata.
Poi ci venivano quelli che avevano affari e qualche anziano disperato ancora con la fregola di vivere, e che si illudeva che vivere equivalesse a fottere, e, per questo, andava a buttane (le uniche, allora, e non tanto blasonate) nel lungomare di levante. Noi ragazzini, a Ortigia, ci venivamo di nascosto dai padri e dalle madri. Perché questo era un posto proibito, decadente e decaduto, dai palazzi erosi per la salsedine, l'abbandono e l'incuria (prima che arrivassero i soldi dall'Europa).
Nel mercato si vendevano prelibatezze crudeli come il mucco (e alcuni padri a cui ho voluto bene dicevano alle figlie belle: "cocciu ri muccu"), ortaggi buoni e passati e cose rubate, pezze e vestiti inaccettabili e sufficienti appena per fare una primavera e poi basta. E ci si stordiva per l'odore di pesce, per la tanta gente, uomini frettolosi, che tenevano un elastico intorno a piccoli portafogli, donne e ragazze grasse e spesso vestite di nero, e le voci roche e animalesche che banniavano parole incomprensibili.
I bambini del Buonfanciullo, li ho visti coi miei occhi, dopo i primi dieci minuti di scuola, scappavano dall'aula uscendo dalla finestra di un secondo piano, e da lì passavano nella stanza vicina per un cornicione profondo trenta centimetri, a piccoli passi veloci e otto metri di altezza. E se erano arrabbiati, in due, o in tre, prendevano un banco e lo buttavano addosso alle maestre con tutta la forza e la disperazione che avevano dentro, e le minacciavano di ammazzarle. Topi nichi, di nove anni, che neanche sapevano cosa voleva dire la loro minaccia. Figli abbandonati e dimenticati, già ladri e innocenti furfanti, persi e misconosciuti.
Prima di un certo momento, in un certo periodo, io venivo in Ortigia a parlare coi tunisini, e intanto vivevo me stesso (sbagliando tutto) come diverso tra diversi, gente patita e sfruttata, cuochi, lavapiatti e tuttofare, che lavoravano tutto il giorno per poche migliaia di lire e stavano zitti zitti e timorosamente tranquilli, vedendosi coi connazionali dopo il lavoro, solo verso le due di notte. Questo succedeva dopo che certi "siracusani per bene", quelli belli e bravi che oggi sono talvolta personaggi pubblici, si negavano al citofono, e si nascondevano dietro al loro bel palazzo perché io non ero all'altezza. I tunisini, invece, erano di varia natura. Ve n'erano di faccia tagliata - K. - oppure buoni e colti - L.- mentre altri non si concedevano mai, nemmeno per dire il loro nome. Dopotutto erano persone semplici che parlavano, sempre tristi, anche con me, tra i pochi, bambino pieno di sogni, che s'illudeva in quel modo di fare qualche passo nel viaggio lungo di conoscere il mondo. Loro invece erano ragazzi grandi che litigavano tra loro in arabo per decidere se tirarmi qualche fregatura brutta, oppure davvero tenermi per "amico", io che fino a una certa età non avevo quasi amici perché, a Siracusa, anche se eri amico con tutti, o stavi sopra il livello di una certa asticella, o stavi sotto, e se stavi sotto era nutriente tutto quello che capitava, e ne eri felice. Ci parlavo bene, io, bambino scemo, che neanche ricollegavo i mercatini di D.P. con le loro vite attaccate a Ortigia con la saliva. Ebbene, volete ridere? Dove ci vedevamo con K. e con L. , adesso c'è un albergo di lusso e il ponte piccolo è un parcheggio riservato. Ma, io dico, dove sono le strade di un metro? Quelle straduzze buie, dove sono? Quei vicoli che neanche sapevi bene dove finissero, dove ti avrebbero portato, quei sentieri spezzati e spesso ciechi per la pianta greca antica, in cui ti muovevi col cuore in gola perché potevano prenderti a legnate "picciotti di squadra" e malacarni?
Quei vicoli, dove sono, ora che tutto è illuminato di led e pieno di piante, di tapas, sedie e tavolini?
Poi...
facevo a piedi, tra andare e tornare, due ore, a dodici anni, per comprare due francobolli da collezione da un anziano che campava di aria. Ora dov'è quel pazzo tranquillo? Cosa ne è della sua bella follia? E quindi, in poche parole, scremandola da quel luminosissimo parco giochi che è adesso, chi mi restituirà l'Ortigia che non trovo più, chi la ridarà a me che neanche sono certo d'essere siracusano? Per dire... l'aria polverosa della caserma dove mio nonno, un ex poliziotto, da bambino, mi portava a tagliare i capelli, per fare un taglio con poche migliaia di lire, chiedendo di T. al piantone, il sapore di quell'aria, e la piccola gioia per l'acquisto concesso allo spaccio della caserma, dove li ritroverò? Lo chiedo senza cattiveria a voi, che siete solo un pretesto, voi ristoratori affabili e accoglienti che baldanzosamente vi definite "basati su una storia vera", voi, per l'appunto, pretesto, riuscirete a restituirmi qualcosa di tutto questo? Mi ridarete uno dei "finti" rapporti sessuali, tentati, da vestiti, tra corpi in parte "rovinati", quelle sere alle Terrazze M., abbandonate da decenni, coi tossici possibili, i lampioni arruginiti, morti, senza neanche il portalampade e col mare a strapiombo? Di quei finti amplessi, di quando ancora non si poteva e non si doveva, io e I. eccitati, "illibati" e quasi col sangue sotto, che cosa mi restituirete, voi che siete "storia vera"?
E della prima zita concessasi, C., dell'impazienza di tanti giorni, della voglia di raggiungerla a casa per arrivare alla marina a baciarci e farci fare i gavettoni con le buste dai picciriddi 'ro scogghiu, cosa mi restituirete? Passavamo per una strada che adesso è piena di francesi e tedeschi e di fumi di friggitrici da cui voi quasi potreste vantarvi di essere lontani, voi che non posso e non voglio odiare, e che mi sembrate quasi autentici. Ebbene, di quella stessa strada sempre vuota di settimana, spesso anche quando c'erano le proiezioni, mi ridarete anche solo un rumore nella penombra?
Dei concerti al Bagatto, e delle sere da solo, nei giorni di settimana, a scrivere fitto, sul notes delle comande, cazzate incomprensibili già allora; di tutta quella vita col mio caro e perduto amico, che cosa mi restituirete? Cosa mi renderete, dopo ventisette anni, in questi giorni che cerco qualcosa in Ortigia, a parte la stessa inutile sedazione dell'aria umida, a parte l'inconsapevole indolenza disperata di allora? Questo lasciarsi vivere, che oggi condividete con qualche straniero di passaggio, è davvero tutto ciò che resta di quella Ortigia per la quale tutti noi, piccoli grandi camminatori degli altri quartieri, sognavano cose importanti?
Non so cosa lo chiedo a fare, certo, non ci sarà una risposta neanche tra altri ventisette anni, e quindi torno a casa che sono le tre, a Siracusa nord, mi volto verso il mare di quassù e corro dentro, perché qui, "lontano" da Ortigia, anche stasera, l'aria puzza di industrie e di chissà cos'altro.

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