mi ha tolto tutto,

il mio paese,

mio padre quando ero un bambino,

e la possibilità di farne parte di me,

la postura eretta del ragazzo,

piegato da anni di fatiche,

il sogno di essere significativo,

almeno un po’ oltre la voglia di far sorridere,

e la capacità ottusa di convincermi

che sempre ne valga la pena.

Ha tolto il senso della mia cultura,

il mio paese,

fatta di ponti tra il libro di stanotte e i princìpi arcaici,

obblighi dolorosi e dimenticati,

di una famiglia svanita tra malattie e meschinità.

Ha reso inutile la conquista volenterosa

di un pensiero educato a comprendere

affinché fosse lasciata, quella cultura,

nel baule buio del “si vedrà”,

e lì dimenticata tra piatte formule

quotidiane più della benzina e del pane:

“le faremo sapere”;

“non demorda”;

“deve assolutamente continuare”;

riferite a fiori fragili costruiti dal debole,

dalla bellezza opinabile e trasparente,

carta di riso,

già logora appena distesa,

vita residua nonostante, 

nel rumore bianco e nella sordità dei giorni interminabili,

quasi sfondo di figure risibili e dominanti,

e sempre descritta dalle parole, dai suoni e dai colori soffocati

nel cassetto sudicio,

confezionato in qualche modo dal mio paese;

nell’angusto inaccessibile

per chiavi taglienti, pensieri veloci, futili e strumentali,

che rapiscono gli occhi e i gesti.

Ha fatto brani della mia vita,

il mio paese,

poi li ha inghiottiti e defecati,

e oggi ancora solo mi concede,

che io possa distrarmi un po’,

e nella serenità apparente della distrazione,

perduta l’attenzione, aspetta che io,

placidamente,

mangi

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