Come ritratti, vulnerabili, commoventi

 

Romanzo

 

 A eccezione di coloro che qui di seguito vengono identificati come fantasmi illustri ed eroi e che sono oggetto della più autentica ammirazione dell’autore, i personaggi e le vicende narrate in quest’opera, in parte persino surreali, sono frutto della sua fantasia e dunque qualsiasi riferimento eventualmente relativo a fatti e persone reali è puramente casuale. Com’è noto, il fantastico, l’assurdo e il surreale sono spesso delle efficaci strategie di riflessione, delle vie di transito verso verità individuali e collettive. Nell’epoca della post-verità questo potrà forse essere considerato un valore aggiunto al “divertimento” implicito nella lettura. 

 

 

 

 

 

  

a Matilde e Rossana,

le luci più splendenti della mia vita

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non basta comprarla perché una terra sia tua.

Diventa tua con gli anni, con la fatica,

col sudore, con le lagrime,

con i sospiri.

(Ignazio Silone, “Fontamara”)

 

 

 

Roccascurdata, Agosto 1860.

 

A Roccascurdata, tra i braccianti, ancora non si è mosso nessuno. Non sa leggere e non sa scrivere Giuseppe Boncordo, ma ha sentito bene padre Salvatore mentre leggeva dal foglio che gli ha passato Giovanni ’u maistru.

"Sopra la terra dei demani comunali da dividersi, giusta la legge, fra i cittadini del proprio comune, avrà una quota senza sorteggio chiunque si sarà battuto per la Patria. In caso della morte del milite questo diritto apparterrà al suo erede. La quota sarà uguale a quella che sarà stabilita per tutti i capi di famiglia poveri non possidenti, e le cui quote saranno sorteggiate."

Sono le parole del proclama del 2 giugno con cui Garibaldi promette la terra ai contadini. Analfabeta sì, Giuseppe, non stupido. Bracciante di ventuno anni, bracciante schiena curva sulla terra, schiena curva e pancia vuota. Fuori dalla chiesa si ferma con altri paesani. Rocco ’u purceddu dice che subito fuori Moriribeddu, la contrada vicina, ci sono alcuni militi dell'esercito meridionale. Giuseppe vuole andare a "parlamentare". Vuole la terra, Giuseppe, nient'altro, di politica non ne capisce.

Piglia a piedi 'a via r’u mari; ne’ manu ’u so bastuni ri luvara, come sempre. Gli hanno detto dove si sono accampati i militi, ci arriva dopo due ore di marcia, fa caldo, il sentiero è scosceso e le scarpe sono bucate. Si siede sotto un mandorlo, aspetta. Passa quasi un’ora. I militi escono dai cespugli puntandogli la baionetta, Giuseppe alza le mani. "Vinni ppi parlamentari..." spiega il bracciante. Un picciotto con la giubba rossa gli chiede cosa vuole. "Me lo mettete per iscritto che mi date la terra se combatto con Garibaldi?". Il picciotto gli chiede se ha già preso l'appuntamento col notaio, gli altri ridono... poi diventa serio: il decreto di Garibaldi è già scritto nero su bianco. "C'aiu a fari?" chiede lui.

A Moriribeddu c'è una piccola stazione del Real Esercito, un piccolo distaccamento del reggimento della Val di Noto, poco più di venti soldati, si tratta di assalire la postazione e costringere alla resa gli uomini di Francesco II. Giuseppe deve trovare altri volontari, poi si deve decidere sul da farsi. Il bracciante torna a Roccascurdata e, prima di rientrare nella sua baracca, visita tutte le ventiquattro famiglie della frazione, spiegando tutto. Quella sera parla a lungo con suo padre, che non è d'accordo con il figlio. Alla fine, Giuseppe se ne porta dietro quindici.

Il giorno dopo arriva al portone della caserma del Real Esercito, bussa, lo sguardo chino. Il soldato di guardia gli chiede cosa vuole. "Vulissi parrari c’u comandanti". Il soldato gli chiede del bastone, "sugnu zoppu..." dice lui. Lo fanno aspettare, poi gli concedono di parlare col comandante: "Ci su' cincu garibaldini fora a Moriribeddu e iu sacciu unni su' accampati." Il comandante gli dice di continuare. "Quanti tarì mi dati si vi lu cuntu?". Il comandante lo prende per la gola e promette che se parla non lo farà incarcerare. Poi gli chiede quanti sono. "Sunnu quattru, dui regolari e du' volontari...". Il comandante chiede se e come sono armati. " I regolari annu ’u moschettu, i picciotti annu l'accetta...". Il comandante gli chiede come lo sa. "Ieunu circannu autri vuluntari...". Il comandante lo guarda male, Giuseppe ancora china il capo.

Il comandante lo trattiene fino a tarda sera, chiuso a chiave in una stanza. Verso la mezzanotte lo fa chiamare e lo mette in testa a una fila di dodici uomini, dietro di lui la baionetta del comandante puntata alla schiena. L'idea è di sorprendere i garibaldini mentre dormono. Camminano sotto la luce di una luna calante, fuori da Moriribeddu, Giuseppe zoppicando vistosamente.

Arrivati allo slargo dove ha parlato con i garibaldini il giorno prima, Giuseppe si ferma, la baionetta gli punge la schiena. "Erunu cca" dice lui e, dopo qualche secondo, i regolari e i quindici volontari portati da Giuseppe, aggrediscono i regi soldati dai fianchi e da dietro. Il comandante tira la leva di scatto del moschetto, ma qualcosa si incaglia e, prima che la baionetta possa bucargli la camicia, Giuseppe gli rompe la mascella col bastone. Negli istanti seguenti atterra un altro soldato che è accorso in difesa del suo superiore. Quando, nonostante la concitazione del momento, Giuseppe si vede puntato contro un altro moschetto carico, comincia a correre. Tre dei regi, liberatisi dalla stretta di alcuni suoi compaesani, gli vanno dietro. Corre nella semioscurità Giuseppe, senza sapere dove sta andando, e intanto pensa che quella è l'ultima volta che corre. Arriva a Roccabianca, una località di quattro baracche poco prima di Roccascurdata, i tre soldati regi quaranta metri dietro di lui. È buio, lui si infila nelle rue della frazione, lo sguardo degli inseguitori spezzato dai muri delle baracche e dal brusco virare di uno dei sentieri. Appena dietro il bivio Giuseppe vede la porta cadente di un cortiletto, vi entra e, dietro un grosso fico, vede un forno. Senza pensare, sposta la pietra tagliafuoco modellata e annerita dalla fuliggine e con un salto è dentro. Le mani di Giuseppe in qualche modo rimettono la pietra a posto. Pochi istanti dopo, il bracciante sente scalpitare i soldati per il sentiero, poi silenzio, poi di nuovo passi e rumore di suole sul terreno pietroso. I soldati buttano giù la porta del cortiletto, sono accanto al fico. Giuseppe quasi non respira, "Accussì mi finiu..." pensa. Poi inaspettatamente i soldati vanno via. Non hanno considerato il forno. Si tortura per due ore Giuseppe e piange nel buio, temendo che i soldati siano andati a cercarlo a Roccascurdata, alla baracca sua e dei suoi genitori. Quando non ne può più esce, ancora in lacrime, e corre a perdifiato verso la baracca. Apre la porticina e trova suo padre e sua madre in compagnia dei garibaldini. La caserma è presa, i soldati di Francesco II sono stati incarcerati e altre giubbe rosse stanno raggiungendo il paese. Giuseppe guarda intimidito suo padre e dice al picciotto: "e ri terra... quanta mi n'attocca?". Il picciotto si mette a ridere e gli dice che deve aspettare, che forse avrà l'onore di conoscere Garibaldi...

Nei giorni seguenti arrivano altri garibaldini e Giuseppe aspetta di essere chiamato per la terra, ma nessuno lo cerca. Poi, girando per le campagne, vede nei campi il picciotto e i due regolari che parlano con alcuni proprietari e i loro campieri. Quella sera, sul tardi, Giuseppe fa per uscire dalla baracca, vuole parlare con Rocco che ha partecipato con lui alla spedizione contro i soldati; suo padre gli si para davanti. Gli chiede cosa vuole fare. "Mi vaiu a pigghiari ’a terra...". Suo padre si oppone, volano schiaffi e spintoni, ma alla fine il ragazzo esce. Due ore dopo Rocco e Giuseppe sono in cima alla collina r’a Mantella, vicino alla saia antica che portava l'acqua dalle montagne, sotto di lui una sterminata distesa di viti ad alberello, Giuseppe ha con sé il suo bastone. Intanto suo padre va dal padre di Rocco e insieme raggiungono don Salvatore ’u parrinu. I due uomini girano tutta la notte e trovano i ragazzi soltanto di prima mattina. I campieri, al servizio dei padroni di sempre, si vedono già in lontananza, quando don Salvatore, scortato dai due genitori, prende i due ragazzi per i capelli e li trascina lontano dalla proprietà. Il prete parla loro contro, rabbioso, spingendo le parole dalla gola nella morsa serrata dei denti: "ma nun lu sapiti ca macari i patruni addivintaru garibaldini? Amuni'... ca vi cuntu comu sta finennu a Bronti...".

 

 

 

Primo.

Le cose e la casa.

 

Felice Boncordo ricevette la mail dagli organizzatori del premio “Teatro in scena” la mattina del 14 dicembre del 2009 mentre si recava al lavoro. L’uomo, un quarantacinquenne in jeans i cui capelli iniziavano a imbiancare, tutto intabarrato in una vecchia giacca a vento, era seduto sui sedili posteriori del bus 19, su cui era salito alla fermata “Fermi” in zona Mazzini. Felice lesse e rilesse l’e-mail più volte sullo schermo del cellulare, finché non arrivò alla sua fermata e da lì, a piedi, al suo posto di lavoro.

Come tutti i lunedì, Felice si sistemò nel suo ufficio con l’intento di riordinare le carte. Erano, quelli all’inizio della settimana, i giorni in cui solo pochi clienti varcavano la soglia del magazzino, complice anche il freddo della fine del 2009.

Il suo era in fondo un lavoro di concetto e ciò sembrerebbe già qualcosa, se non fosse che questa consolazione non attenuava in alcun modo la sua pacata frustrazione.

Il mercatino "Le cose e la casa" era un posto sporco, in cui mancava il minimo tocco femminile, tanto nella gestione degli affari, quanto nell'organizzazione degli oggetti esposti. Il magazzino si trovava in fondo a una stradina privata del quartiere Porto, pieno di palazzoni e viuzze, proprio di fronte all'Ospedale Maggiore, e Felice vi si recava ogni giorno in autobus.

A lungo Felice, non riuscendo a concentrarsi, passò febbrilmente, con lo sguardo, dalle bolle di consegna dei mobili, al testo della mail, che recitava:

 

“Gentili Partecipanti, La Giuria del premio «Teatro in Scena, IV edizione», dopo attenta lettura dei testi, nel ringraziarVi per la partecipazione, ha decretato i seguenti finalisti:

 

F.Boncordo, G. Bordini, C. Cane, F.Demattei,  F. Falce,  M. Filistetti, R. Frittella, M. Gigli, A. Iannucci, P. Laudani, S. Molla, V. Niccolini, M. C. Porro, F. Potentino, R. Rigoli, R. Siloni, B. Sferza, S. Tridimi, G. Temore,  S. Uccello, A. Vicentini e G. Vorboli.

 

Complimentandoci sia con i finalisti, sia con i partecipanti tutti per l’alta qualità degli elaborati, informiamo che la premiazione avrà luogo alla chiesa di Sant’Angelo della Pace giorno 8 gennaio 2010 a Perugia. Raccomandiamo la presenza alla premiazione di tutti i finalisti.  I vincitori, che verranno resi noti nel corso della cerimonia, riceveranno in quell’occasione le targhe e i libri, come da regolamento, e potranno conferire con i giornalisti che interverranno.

Seguirà mail con le indicazioni sugli alberghi convenzionati con la manifestazione,  

saluti cordiali, Giuseppina Paris.”

 

Felice finì l’ennesima lettura proprio mentre entrava nel mercatino il giovane Maurizio. Al suo arrivo, Felice lo salutò goffamente e, come se fosse stato colto in flagranza di un qualche atto vietatissimo, chiuse subito la finestra della sua casella e-mail e iniziò a catalogare alcuni oggetti arrivati il sabato precedente.

“Eccoci qui capo…” disse Maurizio, indolente come sempre, prima di spogliarsi della giacca e della sciarpa, proprio mentre entrava un sessantenne con un lettore dvd in braccio.

Il mercatino funzionava tenendo in conto deposito gli oggetti che i bolognesi portavano per "tirar su" un po’ di "pilla". Per quanto riguardava gli oggetti elettronici e più in generale per gli oggetti piccoli che potevano essere valutati direttamente in magazzino, il responsabile era proprio il giovane Maurizio, un ventenne con la passione per il grunge, mentre se si trattava di mobilio e oggetti di un certo peso, prima era necessario fare una valutazione a casa della gente per non oberare il mercatino con inutili barconi di truciolato e, fare queste valutazioni, organizzare il trasporto e lo stoccaggio del mobilio, erano appunto compiti di Felice Boncordo.

Alcune volte capitavano dei pezzi particolarmente pregiati e, più raramente, dei mobili antichi, ma in genere, per essere accolti nelle strette corsie di "Le Cose e la casa", non serviva che i mobili fossero di particolare pregio e anzi, il più delle volte, si trattava di violente offese al minimo buon gusto. Certamente, se non erano prodotti in serie, se erano in legno e se non erano troppo rovinati dall'uso o dagli xilofagi, passavano l'esame ed entravano nel capannone. Nelle case dei bolognesi, di mobili che possedevano queste semplici caratteristiche, ce n'era un'enorme quantità e bastava che morisse una nonna, o che divorziasse una coppia, e questi oggetti, simboli di una mutata condizione sociale o di un idillio amoroso finito male, lasciavano le case in cui erano stati ben tenuti per una vita, o per un paio d'anni. Bologna poi, con la marea di studenti universitari che vi si riversava a ogni inizio settembre, aveva una costante richiesta di arredamenti che il magazzino soddisfaceva senza difficoltà. Per tutte queste ragioni il mercatino era sempre strapieno di oggetti, ognuno con la sua etichetta riportante il prezzo e il codice del proprietario, e le corsie erano tremendamente strette.

Felice fu a lungo tentato, durante la mattina di lavoro, di condividere con i suoi colleghi la notizia che gli era stata recapitata: il suo testo teatrale “La figlia” era entrato nella rosa dei finalisti del premio “Teatro in Scena”. L’uomo valutò se raccontare la cosa a Nico, uno dei facchini che lavoravano nel mercatino, mentre sistemavano un pensile in cima ad altri tre, ma alla fine si morse la lingua e, scuotendo leggermente il capo, ancora spiazzato dalla notizia ricevuta, diede al facchino alcune indicazioni pratiche.

Al mercatino, quella di accatastare credenze, dispense e poltrone in verticale, era ormai una normale prassi, data principalmente dal fatto di aver esaurito lo spazio superficiale.

Era, questo, uno dei compiti dei "ragazzi", un gruppo di quattro facchini rumeni, che vi si dilettavano con piacere, nonostante il giovane Maurizio, che era anche l'addetto alla sicurezza, fosse totalmente contrario. L'effetto complessivo degli oggetti nel capannone, era quello di un’installazione d'arte contemporanea che mirasse a gridare al mondo l'allarme per un qualche imminente cataclisma, ma a risentirne era soprattutto l'organizzazione del lavoro perché, pur di garantire stabilità a queste spaventose cataste, i mobili dei salotti, delle cucine e delle camere, venivano separati e risistemati anche a grandi distanze. Con ciò, quando un compratore adocchiava una cucina, affinché capisse quali e quanti fossero i vari pezzi che la componevano, doveva percorrere diverse centinaia di metri avanti e indietro e bisognava fargli compiere un enorme sforzo di immaginazione.

A metà mattina Felice non resistette e, con la scusa di un caffè, si appartò, scattò uno screenshot della mail dal telefonino e condivise la notizia con sua figlia Elena, che lo richiamò subito entusiasta.

“Allora alla fine è successo! Come ti senti?” disse la ragazza al telefono. “Non saprei Ele… essere tra i finalisti non vuol dire affatto che…” La ragazza lo interruppe subito: “Non cominciare a fare il disfattista… tenere i piedi per terra è un conto, ma far finta che non succeda niente… non è il caso. Invece dimmi… allora?”. Felice valutò la risposta, mentre Luca, uno dei facchini, lo guardava affabile e riponeva un set di bocce in un vecchio comò.

Alla fine, Felice disse: “Sono contento Ele, ma, che dire, sono un po’ perplesso per le possibili conseguenze… sia che l’esito sia positivo, sia che invece si tratti di un buco nell’acqua…”.

Elena gli consigliò di fare un passo alla volta e lo ammonì sulla necessità assoluta di non rimuginarci sopra. Così Felice tornò al suo lavoro e, facendosi largo tra le pile di mobili stracolmi di roba, in quella strana giornata, anche il magazzino gli parve un posto nuovo, folle e originale.

L'oggetto più strano che era stato accolto al mercatino era una bara. Era stata portata a "Le cose e la casa" da un ristoratore che, dismettendo un locale a tema dedicato al mondo dell'orrore, non sapeva più cosa farsene. Per decidere se prendere quell'oggetto così particolare, era stato scomodato Attilio, il titolare dell'impresa. Attilio odiava essere coinvolto in queste faccende, preferiva godersi la pilla che faceva con quelle cataste di roba, ma su quell’oggetto, quando era stato proposto diversi mesi prima, Felice non aveva potuto fare a meno di chiedergli un parere. Attilio aveva infine comandato di accettare la bara, ma aveva specificato di metterla in una posizione quanto più defilata, per non infastidire i clienti. Raul, uno dei quattro giovani facchini rumeni, aveva sentenziato che Attilio teneva la bara lì pronta per Susanna, sua moglie, una stronza snob vent'anni più grande del marito che gli avrebbe lasciato una piccola fortuna se fosse dipartita prima di lui. Nessuno aveva riso a quello sfogo di Raul, perché in quell'ambiente un po' gretto, nessuno si fidava davvero dei colleghi. Il buon Attilio, che nella vita, prima di diventare imprenditore, aveva sempre fatto niente più che il facchino, l'aveva pensata bene: aveva fatto il gran seduttore con questa sua cliente, insopportabile e benestante, se l'era sposata e s'era fatto prestare i soldi per prendere il capannone e avviare l'attività. L'idea dell'usato in conto deposito e l'abbondante dose di malizia lo avevano premiato e, a quel punto della sua vita, alla fine del 2009, in barba alla crisi dell'economia, gli affari andavano già abbastanza bene da portarlo a svolgere, nell'impresa, nient'altro che il ruolo di padrone.

Da quando era stata scaricata, la bara aveva iniziato a vagare per il magazzino, spostata ogni volta che un cliente aveva arricciato il naso, o a seconda di altre esigenze espositive e, poiché era impossibile vendere qualsiasi oggetto che fosse sistemato nelle immediate vicinanze, alla fine era stata spostata nell'ufficio di Felice che aveva sospirato ed era tornato a riordinare le sue carte. I rumeni erano molto superstiziosi riguardo a quell'oggetto, in particolare lo spigoloso Raul che non giudicava positivamente l'opportunità di rimetterlo in vendita. Luca, il più piccolo dei quattro, un timido venticinquenne molto ben educato, cercava sempre di smorzare i toni accesi da Raul e tendeva a parlare a mezza voce in rumeno con Adam e Nico, due fratelli appena arrivati in Emilia che parlavano un pessimo italiano. Felice li rispettava e ammirava la grande prestanza fisica di tutti e quattro, dato che erano in grado di vuotare un camion in meno di due minuti, anche se doveva spesso richiamarli alla cautela per il fatto che, portando anche più pezzi alla volta, rischiavano di farsi male e di rovinare la roba.

Nonostante il consiglio di Elena di “non rimuginarci su”, Felice finì per fare una serie di valutazioni sul premio; anzitutto pensò al fatto che Perugia non fosse proprio dietro l’angolo, e quindi  per presenziare alla premiazione avrebbe certamente dovuto chiedere un permesso dal lavoro, inoltre, cosa certamente più importante, pur non pretendendo nulla per sé, vista la sua matura età, non si sentiva per niente in vena di fare tutta quella strada per poi scoprire che il suo testo non aveva ottenuto alcun riconoscimento. Per questo, con grande discrezione, si chiuse nel suo ufficio, si sedette alla scrivania e scrisse una mail all’organizzatrice, Giuseppina Paris. Felice ringraziò garbatamente per l’attenzione che la giuria aveva accordato al suo testo e spiegò che, sebbene avrebbe fatto il possibile per essere presente alla premiazione, la sua partecipazione, visti gli impegni di lavoro, non poteva essere data per certa. Salutò cordialmente, rilesse tre volte e inviò la mail, quindi tornò a riordinare alcuni documenti di un inventario.  Nelle ore seguenti rimase un po’ in ansia, quasi temendo che le sue parole potessero suonare offensive per l’organizzatrice e per la giuria, e faticò a svolgere il suo lavoro con il placido disinteresse che lo contraddistingueva. Dopo un paio d’ore, inaspettatamente, il telefono gli segnalò l’arrivo di una nuova mail:

“Gentile Felice, Le comunico ufficiosamente, all'insaputa dei miei colleghi (che non vorrebbero), che il suo testo non passerà... inosservato. La sua presenza, pertanto, è raccomandata.

Cordialmente, Giuseppina.".

 Felice in quel momento ebbe un leggero fremito, sorrise soddisfatto e sospirò, quindi si rilassò sulla sua poltroncina da ufficio, spense il cellulare e chiuse gli occhi. D’un tratto si sentì sereno, leggero. Lo tranquillizzava non tanto la certezza guadagnata di aver ottenuto un riconoscimento, ma il fatto che a quel punto avrebbe potuto fare ciò che voleva; poteva andare a Perugia a ritirare il premio, fatto sicuro, stando all’indiscrezione ricevuta, o, se non se la sentiva, se non voleva esporsi a quell’attenzione, poteva rifugiarsi nell’alibi del suo lavoro, della sua routine. Quel posto, infatti, per Felice, era diventato una specie di rifugio, forse addirittura il perno del suo equilibrio. D’altro canto, a sua volta, il mercatino, doveva molto al suo responsabile, che vi era impiegato da quando, undici anni prima, aveva aperto i battenti.

 

È il 1998, Felice e Attilio lavorano nella cooperativa "Sistema" dove entrambi sono facchini. Non è che siano proprio amici, ma Attilio è rimasto colpito da questo laureato silenzioso ed è nata per lui una specie di istintiva simpatia, ricambiata da parte di Felice, anche se solo formalmente. Ogni tanto Attilio riesce persino a trascinare Felice alla baracchina dello stadio, o allo chalet dei giardini per una birra. Sono le sere in cui Attilio parla quasi ininterrottamente di "figa", rammaricandosi un po' del fatto che sembri dover restare a lungo un semplice argomento. Felice cerca di non offendere Attilio, vedendo in quel tentativo di coinvolgerlo un fondo di bontà in un animo gretto. Quando questa marcatura diventa troppo stretta, quando gli inviti a uscire si fanno più assillanti, Felice fa un mezzo sorriso e dice semplicemente: "Attilio: grazie, davvero... ma lo sai... con la mia situazione, come faccio?". Allora Attilio gli scuote una spalla e gli dice: "Dai dai, soccia, vedrai che spacchi… va là che si risolve tutto...", poi tornano a lavorare, su e giù, dal camion all'appartamento del cliente e ritorno, con un pianoforte, con dei pacchi, con dei mobili.

La cosa più strana che spostano ai tempi della Cooperativa Sistema è uno squalo toro. La Facoltà di Veterinaria dell'Università ha il corpo di quell’animale congelato da anni in una sede in via Irnerio e, dovendo sgomberare il posto, i responsabili decidono di donare quel bestione al Museo di Scienze Naturali. Si tratta di trasportarlo per meno di due chilometri e quasi tutto il tragitto è percorso con il camion, ma comunque, anche se per pochi minuti, girare per via Irnerio con un grosso squalo in spalla, fa a tutti un certo effetto: in seguito Attilio si cruccerà più volte di non aver scattato una foto con quel mostro e si lamenterà che quando racconta l'episodio, non gli creda nessuno.

Normalmente il lavoro di facchinaggio non ha questi risvolti eclatanti e, almeno due giorni su cinque, Felice viene mandato a scaricare container in una ditta farmaceutica sulla Persicetana. Si tratta allora, di tirare giù enormi balle di garza provenienti dall'India. La garza viene poi ripulita e ritagliata per creare confezioni monouso che vengono rivendute in scatole da sei. Tra un container e l'altro, Felice viene assegnato alla pressa, dove gli scarti della garza diventano enormi agglomerati di fibra destinati al riciclo. Questa pressa si trova sotto una tettoia all'aperto e accade quindi che, insieme agli scarti della garza, vengano pressate anche diverse centinaia di cimici, rintanate tra le bobine di tela avanzata. Con ciò, dopo una lunga giornata di lavoro alla “Farma Z.”, a casa sua, Felice passa due ore nella vasca da bagno per togliersi di dosso quell'odore insopportabile.

I lavori migliori sono invece quelli che fa per la Pinacoteca. Gabriele, un romanaccio trapiantato a Bologna, ha strappato al prestigioso ente l'esclusiva per la movimentazione dei quadri dal magazzino comunale al museo e viceversa e, per fare questi lavori, leggerissimi e delicatissimi, il romano chiede in prestito alla Sistema un facchino garbato che non tratti le tele del Carracci o del Guercino come una vecchia cucina in truciolato. Il presidente della cooperativa manda Felice, forse perché crede che la laurea sia garanzia di precisione e accortezza. A Felice la cosa non dispiace affatto, non tanto per l'aspetto artistico della vicenda, ma perché si tratta di oggetti leggeri, anche se da muovere con attenzione, potendo segnare forfettariamente sul fatidico blocchetto, per poche ore di attività, una giornata intera. Le cose vanno avanti tra traslochi e container, appunto fino alla fine del ’98, quando Attilio va ad impacchettare la roba di Susanna Gandolfi, vedova di un noto macellaio del centro, che se n'è andato rumorosamente da pochi anni, stroncato da un infarto. Susanna, appena superato il lutto, compra una casa molto grande sui colli, l'arreda in modo discutibile e paga la cooperativa affinché mandi qualcuno per gli scatoloni e i bauli. Attilio se la gioca meglio che può, parlando senza tregua di Beppe Signori e delle favolose trattorie sull'Appennino che solo lui conosce, ma in verità a nessuno è chiaro cosa abbia detto o fatto per sedurre quella donna ricca e sgarbata. Attilio lascia la cooperativa quasi subito e il resto viene da sé: all’inizio del '99 apre "Le cose e la casa" e una delle sue prime iniziative come titolare è offrire a Felice Boncordo il lavoro di responsabile. Felice non impazzisce all'idea di diventare l'addetto commerciale di un mercatino di roba usata, ma l'alternativa è continuare a spezzarsi la schiena come facchino, in cooperativa e, dal momento che ormai va per i trentacinque, accetta l'offerta.

Il primo giorno di lavoro in magazzino Attilio gli dà un bigliettino con il codice dell'allarme, lo guarda intensamente e gli dice:

“Felice, io ti ho sistemato da me perché di te mi fido, ma soccia adesso è proprio arrivato il momento che gliela dai su con tutta quella roba... il teatro, i testi, le boiate… bona... adesso hai un lavoro come si deve... e devi pensare a Elena. E poi oh... vuoi mettere, lavorare per un amico invece che stare sotto padrone o in cooperativa, che... lo sai no? Mi pare che abbiamo dato…”

È il 5 febbraio del 1999 e anche ora fa un freddo cane, Felice si abbottona il giubbotto e si guarda intorno, sorride con uno sguardo di circostanza e si chiede come cambieranno le cose tra lui e Attilio, ora che lui è il “padrone”, poi sospira e risponde: “Sì, mi sa che hai ragione tu... grazie per il lavoro...”

Attilio gli strizza l'occhio, gli stringe la mano all'americana e uscendo lo apostrofa:

“A tal dég mé c’a iò raån …”.

 

 

Roccascurdata, Novembre 1924.

 

Rosaria Prestia sale per il sentiero alto, sopra Roccasurdata, versu ’u serru. Lassù c'è una sorgente d'acqua che esce dalla roccia e che ancora non hanno deviato. L'acqua della saia vecchia che arrivava in cima alla collina della Mantella, vicino al quartiere, non arriva più da dieci anni. La collina è arida anche all'aspetto, malgrado sia novembre, perché le viti sono state sradicate per la filossera e i limoni ancora sono striminziti. Potrebbe bollire l'acqua della gebbia, Rosaria, per dare da bere a Carmelo e ad Annina, che hanno solo otto e sette anni, ma non vuole correre il rischio.

Sono sette chilometri di cammino, tra andare e tornare, solo per riempire una quartara, ed è un traffico che va fatto tutti i giorni. Mentre sale, Rosaria incontra Nella 'a raggiata e Nina 'a scecca che scendono con la terracotta già piena sulla testa, Rosaria non le guarda negli occhi e non ricambia il saluto; loro all'inizio ci restano male, poi si lasciano superare. "Rosaria t'a ffari forza..." le grida dietro Nella d'un fiato con un tono lamentoso e gli angoli della bocca ricurvi sul mento.

Rosaria è sola. Suo marito, Santino Boncordo, è "al Perù" e cerca di passare in Colombia, quindi in Messico e da lì in "America", cioè nell'America vera, quella ricca, quella dove crescono arance grosse come angurie, come dicono. È il terzo tentativo che fa Santino, due volte lo hanno già fermato a due ore dal confine e lo hanno rimandato indietro. Dal Perù le manda delle foto in posa su un cavallo, nei ritratti tiene le redini in una mano e un mazzo di fiori nell'altra e, a guardarli, sembra che quei fiori voglia darli in omaggio alla moglie, facendoli arrivare vivi da migliaia e migliaia di chilometri. Rosaria non gli risponde, non sa scrivere e anche se fosse, scrivere vorrebbe dire raccontare. Rosaria è quasi arrivata, passa sotto alla vecchia cerasa, la guarda e non si scompone. Poi continua per la sua strada. Quando arriva quasi al passo, lassù, si ferma, avrebbe ancora un po' da camminare, ma le tremano i polsi e non è la fame.  Butta la quartara per terra, la spacca. Grida forte e si siede sopra al masso enorme che suo padre mise lì trent’anni prima, per deviare l'acqua piovana lontano dal sentiero, che altrimenti sarebbe già sparito. Si siede sul masso e comincia a minacciare con la voce gutturale del brigante: "M' aviti a lassari stari... vi manciu li carni... v'ammazzu...".

Scende dalla sorgente Lina Di Fede, di Roccabianca, con la piccola Rachele, e chiede a Rosaria cosa sta succedendo, ma la donna continua a straparlare. Sono passate due settimane da quando hanno trovato il corpo del brigante, sotto la cerasa. Il corpo non è più lì, ma due settimane fa è rimasto esposto per quasi un giorno, prima che due carabinieri di Moriribeddu, aiutati dai fascisti, lo caricassero su uno scecco e lo portassero in paese.  Passano due ore e arriva claudicante Giuseppe Boncordo, il suocero di Rosaria. Quando l'uomo la raggiunge, già in tutto il quartiere si dice che lo spirito del brigante si è preso Rosaria.

"Amuni', turnamu a Roccascurda..." le dice serio Giuseppe, ma Rosaria continua a ringhiare. Quando lui cerca di prenderla per un braccio lei gli si rivolta contro e quasi lo fa cadere; non è che un vecchio. "Si chiddi ti virunu accussì, ’u sai... chi voi finiri ô manicomiu?" Rosaria prende un coccio affilato della quartara e riscende fino alla cerasa, sempre straparlando con quella voce non sua. Giuseppe la segue lentamente continuando a gridarle qualcosa. Alla fine, lei lascia il sentiero e si siede sotto il ciliegio con la scheggia tagliente nelle mani. Lui si ferma nel punto del sentiero più vicino alla cerasa, lei gli urla con voce rauca "Lassatimi stari... iu vi manciu li carni... a tutti... v'ammazzu...".

Quella notte e la notte dopo Carmelo e Annina dormono insieme nella catapecchia del nonno e si stringono forte, come per farsi coraggio. Le travi del solaio scricchiolano ogni volta che si girano sul loro pagliericcio.

Rosaria resta fuori due notti, dormendo campagne campagne e rubando qualche arancia. Chi la vede sta alla larga e si fa il segno della croce. Giuseppe ha il timore che se la portino e chiede ai paesani di non raccontare niente a nessuno, soprattutto a Moriribeddu. Ci torna più volte per cercare di convincerla, ma davvero non è più lei.

Al terzo giorno, prima dell'alba, il piccolo Carmelo scappa dalla casa del nonno Peppe e sale correndo a perdifiato per il sentiero. La trova addormentata vicino alla sorgente e, come la vede, le si butta al collo e scoppia a piangere.

Rosaria, si sveglia e, spaventata, prende tra le mani il coccio della quartara, poi riconosce suo figlio. Lui è scalzo; ha i piedi feriti e non va a scuola da quando lo spirito s'è preso la madre.   Si mette a piangere anche lei. Piangono insieme i due, abbracciati, finalmente. Lei piange anche quello che non ha pianto per mesi. Non le resta che lui e Annina dopo che l'ultimogenita, Agata, ’a nicuzza, è morta sei mesi fa in casa, per colpa di una febbre alta.

È stato proprio dopo questo fatto, che le autorità hanno fatto spruzzare il DDT in tutte le case del quartiere.

 

 

 

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