In Sicilia si usava, specialmente negli anni ’80, comprare e regalare ai bambini, per il Giorno dei Morti, delle pistole o dei fucili ad aria compressa. Funzionavano con un sistema di compressione a leva, senza la ricarica con bomboletta. I bambini ne andavano matti e, ottenuto questo ambito dono, andavano poi in giro a sparare “gommini” rossi e gialli, ovunque e con un certo orgoglio.
Io vivevo in un quartiere popolare, dove possedere queste pistolette era quasi un obbligo.
A me non fu mai comprato uno solo di questi giocattoli perché a casa mia, anche se erano solo “dell’allegria”, come Rodari le aveva definite, era vietato persino pensare che delle armi che andassero oltre il semplice rumore, potessero essere considerate un dono per bambini. Eppure, non fu solo per questo tipo di educazione che non mi appassionai mai al mondo militare (sebbene, alle giostre, dove mi era concesso sparare, avessi una mira eccellente): il punto è che avevo a scuola chi mi insegnava bene e avevo in casa, sotto i miei occhi, le sofferenze di chi la guerra l’aveva fatta davvero.
La scuola e le “buone regole” furono tantissimo, ma la testimonianza diretta mi lasciò un segno profondo.
Lui ne parlava sempre malvolentieri e di rado (anche se io chiedevo spesso, con lo zelo che tutti abbiamo provato quando abbiamo scoperto la storia contemporanea, cercando di fissare nella mente luoghi, episodi e avvenimenti).
In estate, quando si stava stretti in una casa poco spaziosa, una vecchia casa che riuniva in modo patriarcale tutta la famiglia, mi capitò di dormire con lui nello stesso letto e mi venne un colpo quando, ancora dopo quarant’anni dai fatti che sognava, nel cuore della notte, iniziò a gridare in preda alla più buia disperazione, quasi senza riuscire a svegliarsi.
“Nessuno tornerà più come era” canta Capossela.
Non ho mai detto quasi a nessuno cosa mi rispose quando gli chiesi cosa aveva sognato e non ne parlai più neanche con lui, sia perché era stato un momento incredibilmente intimo, in qualche modo, da commilitoni, sia perché alcuni ricordi sono come le castagne matte che i bambini tengono in tasca per scacciare il raffreddore, amuleti da proteggere dentro se stessi, per essere certi che non si sciupino nell’inutile atto di rievocarli, cardini su cui far girare tutto il resto, che ti impongono delle nette prese di posizione e, al di là della convenienza del fine contingente, perdurano come cause per il resto della vita.
Pensava in modo simile, riferendo la cosa alle ragioni di alcune sue scelte personali, anche una persona a me cara che conobbi molti anni dopo, con cui divisi un breve tratto di cammino e che spero di poter incontrare ancora, prima o poi.