si sposta nel tempo
il luogo di una fraternità informale
dove la franchezza ha il suono rassicurante
della risata argentina,
qui i ragazzi sono fedeli a loro stessi
e spostano nel vago vociare e
in sontuose declamazioni etiliche
le consuete granitiche decisioni d'ogni singola verità
e lì le lasciano piagnucolare,
per riservarsi il privilegio di sorridere sereni,
perdendosi negli occhi emozionati
delle ragazze che li sfidano.
Se si potesse rifugiarsi sempre,
ad ogni latitudine,
nella ragione di questo sostare
gli uni accanto agli altri,
aperti,
pacifici,
sodali,
si resterebbe ragazzi per sempre...
Memore della lezione di Calvino sulla leggerezza, ho sempre considerato Pegaso come la capacità compiuta degli esseri umani di trasfigurare gli eventi più terribili del proprio vissuto e di interpretare le tante notizie terribili che apprendiamo sugli "altri". Pegaso nasce dal sangue di Medusa, la pietrificatrice, caduto in terra dopo l'uccisione, oppure direttamente dal suo corpo decapitato (a seconda delle versioni), è un cavallo, grande, possente, ma può volare: è leggero e alla fine della sua vita ascende al cielo per diventare polvere di stelle. Pegaso è la trasfigurazione dell'orrore di Medusa. Pegaso è la gravità che si fa etereo, una violenza che si fa poesia, un lutto che diviene atto d'amore.
Fuori dal mito, come avvengono in noi umani le sublimazioni di cui è metafora? Ritualizzando i lutti certo, ma anche elaborando contenuti sui fatti gravi a cui assistiamo o che ci tocca di vivere. E come avviene questa elaborazione di contenuti? Problematizzando, discutendo, criticando la realtà e non rimuovendola come se non ci appartenesse. Quando rinunciamo a esprimere, e dunque ad articolare un'opinione sulle cose, o una lettura del nostro vissuto, noi rinunciamo a quel dialogo con noi stessi che ci rende umani, che ci rende sani, e quel che è peggio, facciamo di questa rimozione un modello di comportamento per chi ci guarda, per chi ascolta le "prediche" su ciò che è beeeeeene e poi ci vede affondare cucchiai in barattoli di crema spalmabile o inseguire l'acquisto di quel suv da sessantamila euro. Praticamente noi prendiamo Pegaso e gli diciamo: "ehi bello, stai capito: puoi tenere le ali, te lo concedo, ma devi imparare a non usarle... se ti sentirai triste, guarda i preziosi finimenti d'oro e di cuoio che ti ho comprato. Se ti verrà voglia di volare, ammira la tua lussuosa stalla, e se proprio vorrai fare un volettino, vola basso, non fare il fenomeno, non farti vedere, non dare nell'occhio e sappi che io ti marco stretto". Ebbene, come pensate che se la passi Pegaso impantanato nelle pastoie di questa civiltà? Quando ci atteggiamo a bravi motivatori e diciamo frasi come "eh caro, però bisogna reagire!" ci riferiamo alla prassi comune di buttarsi a capofitto nel lavoro o a quella di darci allo shopping compulsivo? Ognuno fa quello che riesce e gli pare, certamente, ma per favore, smettiamo di guardare quasi di traverso chi non si omologa a un certo andazzo generale...
"Accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più."
Oppure...
"cercare e saper riconoscere chi e cosa in mezzo all'inferno non è inferno".
*7 - 17/7/2024
Pensose scemenze: 1) Quando sono a Siracusa nella casa di famiglia, sono sempre allegro: la vetrinetta coi liquori è ancora ben fornita. 2) La mia adorabile famiglia arcaica: parlando con un parente stretto, del nucleo principale, potranno mancare: certezze, ingenuità gratuite e pacatezza duratura, ma non potrà mancare mai, nei discorsi, l'intercalare "bon viaggio e lustru 'i luna". Questo augurio, che contempla la possibilità del destinatario (sempre figura terza diversa dai parlanti) di poter viaggiare anche di notte "alla luce della luna", esprime il desiderio che il soggetto possa allontanarsi (dai parlanti) quanto prima. Avete forse già intuito che non si tratta di un vero augurio, ma di un sottile modo di mandare aff… qualcuno, fatto comprovato dall'aggiunta di uno dei due: "e mazzacani ammenzu 'e peri" che significa letteralmente: " e pietroni in mezzo ai piedi". 3) Un bravo pizzaiolo del quartiere mi ha suggerito di andare "a mmare 'e piliceddi", un posto che non ho mai neanche sentito nominare, così, per dire:"ma che minchia di Siracusano sei?". Se non si fosse capito, sono a Siracusa. Io però non mi faccio illusioni: a Siracusa non si sorride soltanto… p.s. Amici siracusani, vorrei rivelare un segreto: avete un circolo scacchistico accogliente con dei partecipanti gentili e preparati, se non lo sapevate sape… ops!
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Mi capita spesso di pensarmi fuori tempo. Per quello che può valere una "confessione da bacheca", ho spesso l'impressione di vivere di pensieri che non appartengono alla mia generazione, (altra cosa da "Tenemetti", per essere chiaro). Mi sono chiesto spesso se questo dubbio discenda da una predisposizione d'animo o dall'aver trascorso molto tempo della mia infanzia con un nonno, un uomo del '16. Sono abbastanza contento di questa sensazione, perché oltre a non riconoscermi nel mio tempo, non ne condivido le priorità, tuttavia, confesso di sentirmi spesso solo. Non è una questione affettiva, a dire il vero, ma solo una faccenda intellettuale. È esattamente in questi momenti che nella mia testa inizia a risuonare questa canzone. E allora viene fuori un'altra domanda: si può provare nostalgia per qualcosa che non è stato mai vissuto? A voi è capitato mai di sentirvi dentro questo paradosso?
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Le recensioni possibili
Amici carissimi, più che Meneghetti direi di me che sono un Tenemetti, ma, che posso dire... ieri ho fatto una giornata film: il primo, "Grazie ragazzi" secondo me si è comportato da grande capolavoro per tre quarti della vicenda (ma devo dire che sono stato molto coinvolto anche per la presenza di un testo teatrale che amo). L'ultima parte della pellicola mi ha deluso e portato a commentare con R. per un paio d'ore: i protagonisti si evolvono in modo magnifico e commovente, ma poi questa evoluzione non trova un corrispettivo nella trama che ricade, piaccia o no, in un cliché ben mascherato (sono bravo a non spoilerare, eh?).
Il secondo, "Dieci minuti" meno coinvolgente sul piano personale, è comunque stato intenso e vero dall'inizio alla fine. Tra l'altro è un film che racconta proprio la necessità di trasfigurare di cui scrivevo ieri. E non si pensi che questo debba riguardare solo chi necessita di "terapia"; l'atto di spegnere il cervello, a parer mio, dovrebbe corrispondere solo a un sacrosanto standby... buona visione, Luca Tenemetti.
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13/7/2024 - *2 - Fenomenologia della giovane età.
Sono certo che una delle cose che caratterizzerà il ricordo di questa estate per me faticosissima, solo poco meno faticosa della normale routine lavorativa, sarà questa canzone. Il testo in particolare, entrato nella mia quotidianità familiare per gli ascolti in auto con mia figlia, è una sorta di flusso di coscienza disimpegnato, e nei giorni scorsi mi ha sempre più incuriosito. A Matilde questa scrittura piace, quindi mi sono chiesto, senza fare troppo l'esegeta, cosa possa averla attratta di questo tipo di costruzione. Mia figlia è molto particolare e non so se si possano fare deduzioni sui giovani in generale partendo proprio da lei e dal testo, ma, se si potesse, sarebbe interessante la conclusione: il testo mi sembra, per quanto piacevole, scanzonato, disimpegnato, destrutturato, quasi casuale e totalmente privo di scopi etici o estetici.
Se questo rappresentasse i bisogni dei ragazzi occorrerebbe chiederci quanto il mondo ipercomplesso e ipercompetitivo che noi adulti propiniamo loro, tra un "premio" e una "punizione", possa rappresentarli.
Certo nella vita ci sono lo studio, la carriera, il denaro, la stabilità, il successo, le convenzioni, il galateo, i doveri, i ruoli, le gerarchie, i valori (ciascuno secondo la propria lettura), e poi i problemi, i problemi, i problemi e, infine, ancora i problemi.
Io però guardando mia figlia e il suo essere a culo col mondo (perdonate l'uso del francese), mi chiedo: diamine, e se fossimo noi ad avere torto?
Avviluppato nelle pastoie della mia scomoda e faticosissima estate questo interrogativo si fa per me molto, molto stringente.
Meno male che, almeno una volta al giorno, questo "antitesto" mi regala un sorriso e, anche per questo, si rivela perfetto per un "antipost".
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*1 - 12/7/2024
(All'indomani dell'anniversario della finale dei mondiali del 1982, dopo aver deciso di non scrivere più sui social).
11 luglio 1982 - Ricordo quasi tutto di quel giorno, e certamente non perché capissi qualcosa di calcio. Vivevo in un appartamento di un grande e grigio condominio e a Siracusa c'era un caldo da morire. Mia madre scalpitava perché avrebbe preferito uscire e cercare un minimo refrigerio. Il mio non capire nulla di calcio, tornei e giocatori era compensato dalla certezza di essere dentro un rito collettivo enorme, nel quale tutti gli italiani si sentivano vicini. A guardare la nostra attuale Italia (la nazione, non la squadra), divisa, lacerata ed estremizzata, viene la nostalgia di quella che, presieduta da un partigiano, pur essendo piena di politiche grigie e corrotte, ancora combatteva. Era un'Italia più umilie, concreta, vera.
*0 - 11/7/2024
(Avendo deciso di non postare più su facebook e avendo creato la rubrica "antipatico antipost").
A dire il vero, mi riprometto di scrivere anche cose simpatiche, ma non lo farò più sui social. Lì, piuttosto, lancerò solo un allarme: "ehi voi, sì dico a voi... non voglio imbarazzarvi con un post su temi che d'un tratto sono divenuti scottanti, ma se ugualmente volete leggere cosa ne penso, venite a trovarmi dove siamo liberi da un algoritmo che censura un pensiero impopolare, eppure, forse, meritevole d'attenzione". Questo cercherò di notificarlo, perché mi prendo molto più seriamente di quanto pensano in tanti e per non lasciare soli i contenuti. Altrimenti come va a finire? Me la canto, me la suono e me l'ascolto? In quanto poi alle cause per cui certi contenuti siano diventati, o divengano scottanti, bisognerebbe fare una serena riflessione: se non sei allineato e scrivi del latte scontenti i lattai, se non sei allineato e scrivi di cartoline scontenti i postini, se non sei allineato e scrivi dei decreti scontenti i decretanti... oh, ma non sarà che la dittatura del like non tollera i disallineati?
Un anno un amico mi disse: "guardando come vivi, considerando, non so, il livello di disordine della tua stanza, credo che ti manchino dei codici paterni".
Era la seconda camera singola della mia carriera universitaria (la famosa camera singola!!!) in una casa di studenti. A sentire quella baggianata mi misi a ridere: avevo passato molto tempo con mio nonno che era di un ordine e di un rigore maniacale, propri dell'ex militare che era in lui. Mandai il mio amico a cagare... poi negli anni, quest'espressione "codici paterni" mi è rimasta in mente come un cruccio, a volte come un rimprovero, tanto da costringermi a chiedermi spesso, in merito a mille altre questioni, dove potessero mancarmi dei "codici paterni".
Circa due anni fa ebbi un'illuminazione. Ripensai ad alcune di quelle fasi della vita in cui ti aspetti che qualcuno te ne spieghi passo passo le istruzioni. Ripensai a come, un anno di molti anni fa, avessi eletto a dettame chiave quanto è scritto in questa poesia, che avevo scoperto perché un carissimo amico di famiglia l'aveva portata a mia madre in uno dei tanti colloqui di lavoro.
Chi ha frequentato la mia stanza a Siracusa sa che lì era appesa, un foglio sgualcito messo anche un po' storto, a dire il vero.
I miei ex alunni, tutti, ne hanno avuto una copia: è sempre stato (ben ordinato e incorniciato) il mio regalo di fine ciclo.
Questi sono i miei "codici paterni".
Chissà se vanno ancora bene per vivere la vita, oggi...
Naturalmente racconto questo perché ritengo che sia utile sottolineare come la letteratura, o fuori da ogni etichetta, il leggere e lo scrivere, e la possibilità di attingere a modelli cognitivi dei più vari, non sia mai, semplicemente, qualcosa di "carino".
Dunque, ancora, grazie M.
Vorrei fare delle letture sul concetto di identità (non in chiave "culturale" o nazionale, ma giusto in chiave personale) se vi vengono dei titoli, vi va di segnalarmeli?
Se.
Se riesci a non perdere la testa quando tutti intorno a te
la perdono e ti mettono sotto accusa.
Se riesci ad avere fiducia in te stesso
quando tutti dubitano di te,
ma a tenere nel giusto conto il loro dubitare.
Se riesci ad aspettare senza stancarti di aspettare
o essendo calunniato a non rispondere con calunnie,
o essendo odiato a non abbandonarti all’odio,
pur non mostrandoti troppo buono,
né parlando troppo da saggio.
Se riesci a sognare senza fare dei sogni i tuoi padroni.
Se riesci a pensare senza fare dei pensieri il tuo fine.
Se riesci ad incontrare il successo e la sconfitta
e trattare questi due impostori allo stesso modo.
Se riesci a sopportare di sentire le verità
che tu hai detto distorte da furfanti
che ne fanno trappole per sciocchi o vedere le cose
per le quali hai dato la vita distrutte e umiliarti
a ricostruirle con i tuoi strumenti oramai logori.
Se riesci a fare un solo fagotto delle tue vittorie
e rischiarle in un solo colpo a testa e croce
e perdere e ricominciare da dove iniziasti senza
mai dire una sola parola su quello che hai perduto.
Se riesci a costringere il tuo cuore, i tuoi nervi,
i tuoi polsi a sorreggerti anche dopo molto tempo
che non te li senti più ed a resistere
quando ormai in te non ce più niente
tranne la tua volontà che ripete “resisti!”
Se riesci a parlare con la canaglia
senza perdere la tua onestà
o a passeggiare con i re
senza perdere il senso comune.
Se tanto nemici che amici non possono ferirti
se tutti gli uomini per te contano
ma nessuno troppo.
Se riesci a colmare l’inesorabile minuto
con un momento fatto di sessanta secondi
tua è la terra e tutto ciò che è in essa
e quel che più conta sarai un uomo, figlio mio.
Rudyard Kipling
P.S. La foto (molto personale) è qui per due ragioni. La prima, per interrogarmi: finora sono stato un padre troppo protettivo? No, finora, credo di essere stato protettivo solo quando è stato necessario. La seconda per ringraziare tutti coloro che mi hanno aiutato a esserci e a essere padre (dal Ministero della Pubblica Istruzione in giù).
Io canto una canzone alla rovescia,
ché alla diritta non la so cantare...
l'estate scorsa, mi ricordo, era Natale,
andai contento a festeggiare il Carnevale
vestito da befana andai a pescare
e munsi latte dalle carpe in fondo al mare,
gustai quel vino, ingurgitai quel miele,
in un biplano sotto terra e a gonfie vele,
desiderai di esser fidanzato,
chiesi a mia moglie che non m'avea sposato.
tornato a casa decisi di sciare
e quando fui riposato abbastanza,
misi un bavaglio e cominciai a cantare,
quel mio tacere fu sentito a gran distanza,
per questo non smettevo di parlare,
con tutto quel silenzio nella stanza,
spensi la radio e cominciai a ballare...
W la pubblicità! W la "italianitudine"!
Il grano italiano, galline solo da allevamenti italiani, prodotto con solo latte italiano (magari con mucche inglesi di razza Jersey che in inverno sono alimentate da fieno sloveno e curate con farmaci veterinari pf*zer americani). Insomma, sono solo io a sentirmi un po' ostaggio di questo continuo richiamo all'italianità del prodotto? Vorrei dire: ottimo il sostegno al produttore nostrano che tinge le confezioni dei prodotti di verde, bianco e rosso (se fa per bene) ma... mi chiedo, e se poi il grano spagnolo, alla prova dei fatti, fosse più salubre? Cosa ce ne faremmo (in termini di salute) noi poveri consumatori del grano italiano? A noi cosa viene in tasca se il latte è italiano, quando l'amministratore delegato è olandese, la catena di lavorazione è polacca e le tasse le bypassano in Lussemburgo? A noi anonimi "nessuno", che coi nostri acquisti se non arricchiamo A arricchiamo B, il quale sta comunque su un altro pianeta a livello socioeconomico, che cosa cambia? Per essere esplicito e non attirare immotivate antipatie: quello che mi indigna è l'uso malizioso del linguaggio, che, nella mia forma mentis di maestro è il bisturi per sezionare le cose e capirle, non un affumicatore per vendere pungiglioni alle api. Ce l'ho con la pubblicità, i cui limiti valicano la menzogna legalizzata che essa incarna e hanno ricadute sulla società; diciamolo: gli sportivi dello sci che vendono, non so, lo yogurt, sono tutti altoatesini... ma in Abruzzo non si scia? Il sogno mio, lo giuro: un campione olimpionico di sci di Zafferana Etnea che pubblicizza la polenta taragna (questo sì campanilismo). E poi, minchia, un personal trader ca parra calabrisi nun l'avemu? Ma che stanno tutti in Lombardia? E poi, la generosità è romagnola, il caffè parla solo napoletano, eccetera eccetera. Ora, tralasciando il Molise (che non è mai esistito), mi chiedo: perché mai è dai tempi del tizio che non aveva provato **rrà, che non sento un marchigiano in uno spot?
Di contro, noto che non accennano mai all'italianità della giurisprudenza sottesa ai contratti: se scrivessero sulle confezioni "lavorato solo con contratti pacco del precariato italiano", temo, venderebbero molto, ma molto meno.
Fortuna che il patriottismo può essere declinato in tanti altri modi...
chiese
l’amica che fu
due vite fa
sguardi innocenti innamorati
consigli
su libri da vivere
avendo tempo ed energia per
vivere
anche le vite immaginate
le scrissi di scritture
splendide sferzanti
slave
poi aspettai un commento
anni
dicono
silenzi come questo
di lei
di noi
dopo due vite e ancora qualche anno
lontane nel tempo
dagli occhi innamorati
e nel vagare tra altre fantasie
più di tante parole titubanti
e il mio aspettare
fin troppo
mi racconta
Ho affrontato in storia con gli alunni in questi giorni la classica "cosetta da niente": i cambiamenti come effetto riconoscibile del passare del tempo. Ora, a parte parlare della mia poderosa stempiatura, ho chiesto cosa sanno fare oggi che non erano in grado di fare ieri.
Tra le tante cose belle emerse, in molti ricordavano il momento in cui hanno imparato ad andare in bicicletta. Mi sono infervorato, lo confesso, perché ho vivida ancora oggi la sensazione del piacere nella conquista dell'equilibrio sulle due ruote, come se avessi imparato ieri, una sensazione che credo possa somigliare a quella del volo, in qualche modo.
Un sondaggio tra gli alunni ha dimostrato che solo un paio su 25 non ricordavano chi fosse loro accanto a "insegnare" l'equilibrio in bici. Insomma, è evidente che quello di imparare ad andare in bici è un "ricordo base", come lo definirebbe un film d'animazione di qualche anno fa, e penso che se estendessimo la domanda a tutta la popolazione mondiale, scopriremmo che quel ricordo è nitidissimo praticamente in tutti. La cosa mi ha dato da pensare... cosa fa in fondo chi ti "insegna ad andare in bicicletta?". Credo che a volte non servano tante parole, capriole o adulazioni per creare un legame unico e sono quasi certo che si possa restare indelebili in qualcuno semplicemente standogli accanto, giusto finché non scopre di voler anche mettersi alla prova da solo.
Credo che sia sufficiente stare lì e basta, anche senza incitazioni da stadio, agonismi e competizioni contro il resto del mondo. Esserci e correre (malgrado la pancia?), con la mano che neanche sfiora la sella, con il braccio lì disteso e pronto ad afferrare senza far altro, se non dire "sono qui con te". A pensarci, in fondo, è una bella emozione anche questa. Quasi da perdere l'equilibrio...
misconoscersi e
scoprirsi
e
difendendosi rispondere
all’arroganza del supponente
alla presunzione dell’esaltato
al fervore dell’irragionevole
all’irrazionalità dell’etilista
all’autodistruzione dell’addolorato
pagando la difesa
con detestata
e
non per questo
meno necessaria fermezza
se solo il supponente
scorgesse
il luogo della propria sofferenza
per lanciarvi oltre
se stesso
F.
anonimo
vinto
residuale
questo mondo di vento
sembra per lui non disporre più niente,
e forse niente sarà dei suoi anni;
deve essersi perso un passaggio intermedio
tra lo stupore per miraggi proiettati
per miope immersione
in esibite convinzioni
e i pianoforti sul collo;
tra il poco e quel tutto
di cui mai ha lamentato il bisogno,
tra il volere sparire e l’imparare ad amarsi,
deve essersi perso in qualcosa,
deve avere deviato il percorso,
infuriato sereno e non più pertinente
annegato e bastante,
bastonato e libero,
rapsodico talvolta
innocuo plebeo,
forte del solo suo respiro,
distinto e scuro
in questa folla scintillante
diverso
dalla frenesia quotidiana,
rabdomante tra assetati di altro,
di bevande zuccherate e collose,
gonfie di anidride e di ammine,
oppure di ambrosia e di alloro
introvabile,
almeno quanto è onnipresente
ogni vago dispensatore di certezze;
eppure, aleggia in lui
nel cuore
il senso d’un ritorno a qualcosa
come pace che non elude rinunce
e muto non sembra
perché
pur tacendo
lo scandalo inaccettabile
è tutto fuori di lui
e sono lontani gl’incubi
in cui si dibatteva
bambino privo di voce
stritolato da mani gigantesche,
di pietra
non più;
la morsa sgretolata gli rende il riposo,
molle melodia del ritorno alla casa
per quanto lontana dal mondo,
e lui corrisposto o ignorato,
latore d’una fiducia irragionevole,
che incanta la sua fame
e racconta al bambino:
“qualcosa di bello,
sarà
ancora
di te”.
“È tutta colpa di quella mia boccaccia…”, ripeteva pensieroso il dottor Panzani, intrattenendo gli altri notabili di Sabbiedolci. La schiera di panciotti domenicali guardava cupa i vetri del Caffè Belmondo e all’unisono annuiva sorseggiando al sole certi buoni aperitivi al seltz. L’avvocato Spinetta si sarebbe aspettato dal Panzani, medico condotto coscienzioso, un’ipotesi più strettamente clinica, come un’intossicazione da monossido di piombo, ma il dottore godeva di una tale stima, che se anche avesse blaterato di un fantomatico filtro stregato e velenoso portato da un cliente straniero, Spinetta non l’avrebbe contraddetto, anzi, sarebbe rimasto com’era, ben schierato nel coro di giunchi della Sabbiedolci bene, gente ostinata negli inchini d’assenso, sempre pronti a scoprire, davanti all’ “ipse dixit”, le nuche rosee mai offese dal sole e dal lavoro vero.
Non era solo un fatto di autorità, comunque, il buon medico sapeva il fatto suo, quello altrui e aveva avuto un ruolo attivo in quello che poteva dirsi l’antefatto, a ben guardare. Tanto si reputava causa, che il Panzani pagava, per senso di colpa, per buon cuore e per spirito di carità cristiana, un mozzo, un moccioso balbuziente del paese, affinché carrucolasse un pasto caldo al Maestro, come lo chiamavano tutti senza mai far confusione con altri figuri, anche per non scomodare genealogie di suoi avi non cattivi, ma certamente poco illustri. Questo certo non comportava che il discolo, il balbuziente, avesse un lasciapassare per il laboratorio del vetraio, sia chiaro, è solo ch'era nato, per puro caso, in due stanze al primo piano dello stesso stabile e, dalla sua finestra, poteva calare un cestino, proprio nel cortiletto annesso al retro della fornace, dove il Maestro teneva depositi di sabbie e di numerose sostanze segrete, con le quali produceva le opalescenze, le limpidezze e le rifrazioni che lo avevano reso famoso in tutta Europa.
Questo sfortunato bimbetto aveva paura di quell’illustre alchimista, per quanto la curiosità gli rosicchiasse i pensieri resi intermittenti dal modo zoppicante di parlare. Aveva paura, non solo perché la madre, un guscio vacante tutta rosari e penitenze, gli aveva spiegato il calore ascendente della fornace con tanti racconti dettagliati dei novantanove ingressi per l’inferno, ma soprattutto perché proprio non capiva quando e in che modo il Maestro sdoganasse quella sbobba dal vimine che gliela sospendeva davanti alla porta sul retro dall’alto con la corda. Una volta il povero “Tatà”, come lo chiamavano tutti, rimase appostato davanti alla finestra, vigile e nascosto, una notte intera, pur di vedere il Maestro estrarre una zuppa di borlotti dal canestro, calato per l’occasione dal lato illuminato del cortile, quello appunto esposto al chiar di luna. All’alba poi, spazientito e affamato, ritirata la cordicella per godersi i legumi freddi trascurati dal misantropo, dovette sorprendersi e prendere atto dello smacco, di un piatto vacante e di un insolito biglietto con su scritto “grazie”.
Che il Maestro, usando la diabolica fornace, avesse davvero varcato una di quelle 99 porte? Che fosse divenuto un dannato spettro affamato di fagioli, per quanto non visibile?
Non eran dello stesso avviso i clienti americani, giunti a Sabbiedolci dopo mesi di sballottamento, tra piroscafo e binari, per trovarsi, ancora dopo un anno di tenace permanenza, con un bel palmo di naso.
I businessmen sostenevano che il Maestro non fosse affatto sprovveduto e rimbambito e davano invece per certo che si fosse rintanato nel bugigattolo per fare più “precious” la sua arte, e rendere più “expensive” i manufatti. Questa pragmatica lettura del ritiro sembrava comprovata dai biglietti scivolati per mano loro sotto la porta serrata del negozio, tutti pasticciati di offerte al rialzo, ora per il lampadario perfetto per una sala da ballo a Chicago, ora per il servizio di bicchieri con cui corredare il matrimonio di una grassa figlia del Maine.
Questi aspiranti compratori erano arrivati al punto di stilare una lista con l’ordine di arrivo, onde evitare che la furberia dell’ultimo arricchito, gli facesse venire la tentazione di scavalcare i primi “arrivati”, che avevano fatto di Sabbiedolci una residenza quasi principale. A nessuno di quegli affaristi, comunque, per quanto fossero agguerriti, sarebbe venuto in mente di vendere la propria posizione in quella speciale graduatoria, a riprova del fatto che c’è sempre nella vita qualcosa che davvero non ha prezzo.
Le comari del paese gioivano solo con mezzo sorriso di tutti gli stranieri facoltosi che, dovendo alloggiare in qualche posto ed essere “sfamati”, finivano per rimpinzare di contante le tasche delle padrone di casa, e i loro ventri di figli, mentre gli ignari mariti sgobbavano nei campi, ancora convinti d’esser poveri. Le streghe gioivano solo a metà perché in fondo volevano bene al Maestro e si corrucciavano della sua clausura. Aveva un certo peso tra questi canoni di gemiti e sospiri, la tesi romantica, accesa dalle chiacchiere dell’Angioletti, moglie del postino, la quale confidò in gran segreto, a tutto il paese, di certe lettere profumate che il Maestro avrebbe ricevuto mesi prima di serrare l’uscio, fatto accaduto proprio nel giorno in cui, al posto della solita, sarebbe arrivato all’artista un telegramma. "La lettera d’un lutto di sicuro" secondo l’Angioletti, tesi, questa, comprovata dalla vetrina dell’atelier, oscurata nel corso d’una notte, da un cristallo nuovo, di un nero impenetrabile e brillante, come fatto d’ossidiana. Si diceva, insomma, che questa "lei" inaspettatamente fosse morta. “Una nuova trovata commerciale del mago” commentarono allora gli artigiani concorrenti, “cristallo d’uomo in lutto” ribadiva la “postinaia”, come la chiamavano sprezzanti i misogini e i respinti, ricollegando quello scherzo dell’arte a un esito infelice nella corrispondenza privata dell’artista.
In verità, comunque la si guardasse, la faccenda restava oscura, quanto la lastra buia dietro la quale l’uomo si era barricato, un giorno, per non concedere più, ad alcuno, nulla di sé e della sua magia.
Forse l’unico a sfiorare il vero, in modo però vago, fu per l’appunto il Panzani di cui sopra, il quale esibì il vantaggio, sui suoi concittadini, d’aver fatto visita al Maestro poche settimane prima che questi si rendesse inaccessibile:
- Non so più cos’è reale, cosa è creato dalle rifrazioni dei cristalli e cosa dalla mia immaginazione. Dottore, che cosa posso fare...? –
Così aveva spiegato il Maestro nel tono più oggettivo, mentre il medico lo scrutava col suo aggeggio dentro agli occhi.
Panzani qual gradasso, certo che la vista del paziente funzionasse a perfezione, la rassicurò con una metafora che valicava di molto le competenze a sua disposizione e che, secondo i suoi successivi sensi di colpa, si sarebbe rivelata gravida di conseguenze:
-La mente umana, sa, è un dodecaedro, e non dovrò dilungarmi nel dire proprio a lei come il mondo diventa, visto per quelle rifrazioni: sa bene che è impossibile guardare una faccia senza perdere la percezione delle altre, e sa bene che la minima inclinazione della lente, modifica del tutto l’univoca realtà a vantaggio del molteplice. Ma lei faccia così: scelga un'immagine... voglio dire, che cosa cambia? Infine, si comporti come noi... l'immagine, la renda sua, ci creda, in fondo tutto il vivere è un atto di fede... -
Il Maestro annuì pensieroso e Panzani lasciò il negozio di cristalli. Era sereno il medico in quei giorni, perché s’era compiaciuto della propria intelligenza e aveva considerato quel fare riflessivo dell’artista, l’inizio di una certa guarigione. Ma quell’indizio di una presunta e facile prognosi fu poi disconfermato dalla lena del Maestro, mentre il dotto bellamente s’imbrodava di un successo inesistente, nel costruire un “dodecaedro perfetto in cristallo speciale” che gli avrebbe restituito tutto il mondo intero, come disse, parlando tra sé, l’inaccessibile artigiano, da tutti lontano coi pensieri. La rincuorante dedizione a tale manufatto, del tutto ignoto ai compaesani, si era quindi ben presto trasformata in ossessione, mandando in malora quella prognosi e facendo ricredere il Panzani sul beneficio della sua intelligenza nella vita altrui.
Il Maestro aveva smesso di uscire, di mangiare perfino, per dedicarsi unicamente a quel cristallo e aveva finito per cacciare l’emerito dottore, accorso nuovamente con altre buone ma più umili intenzioni. Era stato da allora, che in quella fucina, di lì a poco, s’era tumulato vivo, come detto.
Il medico crucciato, se ne sentì colpevole a lungo, imputando alla vanità sua e di quella sfaccettata metafora lo sconquasso avvenuto nella mente, fino a prima appena confusa, di quel genio d’un vetraio.
Ci vollero mesi e mesi, e fu solo con l'arrivo dell'estate che il Maestro, riconcependo se stesso soltanto un umile vetraio, di nuovo aprì i battenti, stanco, smagrito, allampanato. Allora i compaesani tutti si raccolsero davanti al suo negozio. A loro, che a lungo lo guardarono confusi, disse solo:
- Però una verità c'è sempre, ci vuole solo la pazienza di scovarla. - e nel dir questo alzò una mano in cenno di saluto e si rimise a lavorare.
Non si dorme mai bene a Piovelagna, forse per colpa dei gas serra, forse per via dei ritmi di vita estenuanti, oppure, può darsi, perché la latitudine è sbagliata. Non è immune da questo cattivo riposare Manlio Piccinapaga, maestro alla scuola primaria del paese e uomo con pochi, pochissimi segreti. Uno di essi è l’abbonamento alla rivista per docenti: “L’insegnamento, ma perché?”, periodico sovvenzionato dall’ENAM che affronta i temi scottanti della scuola: presenta i rischi di un’errata turnazione tra ricreazione e pulizie (con un paragrafo avvincente sul fango portato dentro dagli alunni), ospita annosi dibattiti su chi debba rimuovere dal muro gli alfabetieri in disuso, coinvolge il lettore illuminandolo sulla fisiologia dell’epidermide nello studio del rapporto tra la polvere dell’atrio e l’esfoliazione della pelle, dalla pubertà all’adolescenza, un argomento non da poco, considerando che la desquamazione infantile, dato il metabolismo veloce dei numerosi ragazzi, va ben oltre le “sole” trentamila cellule al minuto proprie di un adulto. Il motivo di tanta segretezza, tuttavia, non consiste di per sé nell’abbonamento alla rivista, ma nel fatto che il Piccinapaga l’acquista da anni solo per poter partecipare al concorso allegato, un’edizione diversa in ogni numero, che apertamente fa leva sull’inguaribile predilezione di alcuni individui, non a caso divenuti impiegati statali, per le prove concorsuali. Manlio, insomma, ama risolvere gli enigmi proposti come allegati alla rivista e spedire la cartolina di partecipazione al costo di un obsoleto francobollo.
A Piovelagna, patria di pere, pittori e petulanti, l’insegnamento è odiato o invidiato, senza mezze posizioni. Per la maggioranza dei cittadini, la scuola è naturalmente il luogo ambito in cui degli impiegati privilegiati si crogiolano in un dolce e vergognoso far niente, il nido del lavoro garantito e piacevole, dai risvolti umani sempre positivi e commuoventi, mentre le élites del paese considerano la media degli insegnanti una congrega di esseri inutili: non abbastanza indifesi per essere inquadrati e messi sotto, non abbastanza dotati per essere oggetto di un’adulazione interessata. A Manlio Piccinapaga però tutto questo importa poco, poiché a Piovelagna egli svolge il suo lavoro senza fare e senza sentire storie. Indigeno neanche alla lontana, pacato, distante e affettuosamente ignorato dai più, l’uomo si rigenera con delle lunghe passeggiate lungo il lago, con la sua collezione di ciottoli antropomorfi e, appunto, con i concorsi della rivista. Quasi non crede ai suoi occhi quando un giorno, di ritorno da scuola, aprendo la cassetta delle lettere, scopre di essere tra i risolutori dell’enigma della terzultima edizione: “Leggerezza e apprendimento: le ragioni di un ossimoro”. Manlio scopre così di avere vinto un invito nel noto ristorante gourmet “Villa Pacca” a Schettola in Enna, in Sicilia, neanche troppo lontano dai suoi luoghi natali, dove potrà constatare le ragioni del successo ottenuto dal ristorante sulle principali guide nazionali ed estere. Dopo una prima istintiva soddisfazione, il Piccinapaga, tuttavia, trascorre la giornata arrovellandosi. A lasciarlo perplesso è quella formula “Complimenti lei ha vinto un invito”, sei semplici parole che insinuano in lui il dubbio che poi, una volta a Villa Pacca, il pasto debba pagarselo di tasca propria. Manlio passa così tutto il giorno seguente al telefono, cercando di contattare la rivista, tra una selezione numerica per la voce registrata e la solita caduta della linea. Alla fine, pagando con la lunga attesa, riesce a parlare con una tirocinante in servizio gratuito effettivo alla rivista e riceve finalmente la conferma di aver ottenuto, in qualità di vincitore di concorso, non solo l’accesso all’esclusivo ristorante, ma anche il corrispettivo del conto.
Prenotato in agenzia di viaggi un volo low cost, Manlio riprende la sua vita d’ogni giorno, che d’un tratto gli pare diversa, problematica e insoddisfacente. Dopo anni di relativa inedia l’uomo inizia a porsi delle domande su se stesso, sulla propria adeguatezza al mondo, e trascorre, consumandosi, l’attesa di questo qualcosa che sarà e di cui, dopo tanti giorni di protettiva routine, non ha certezze. Le settimane che precedono l’evento lo vedono quindi inconsuetamente ansioso, in bilico tra l’impazienza di lasciare l’asfittica pianura su cui giace Piovelagna e il timore di non essere all’altezza del luogo esclusivo che visiterà. Naturalmente Manlio cerca, da professionista qual è, di non far ricadere sugli alunni gli effetti del suo nervosismo, e ci riesce inquadrando rigidamente le spiegazioni scolastiche nel quotidiano e tranquillo soliloquio monocorde a cui i bambini sono abituati ormai da due anni. Poi però, finalmente, arriva il momento e, dopo una significativa conversazione con un’hostess (nella quale si riscopre pieno di orgoglio per se stesso), dopo una rocambolesca avventura all’aeroporto di Catania, con un tassista sprovvisto di licenza, Manlio raggiunge Schettola, dove ha prenotato una garbata pensioncina. Mangia brevemente un quadratino di pizza e poi il Piccinapaga fa un giro a piedi nel centro storico, un curioso puzzle di architettura plurisecolare e friabile cemento armato, faticando non poco a schivare ragazzini inselvatichiti su motorini elaborati e rumorosi, e trovando un po’ di relax solo sulla panchina di un morente parco cittadino, in cui si ferma a leggere, guida alla mano, la storia dell’antichissima Villa Pacca. Manlio poi riprende il proprio cammino, allungando di molto il tragitto, con il preciso intento di stancarsi, per poter dormire bene in previsione dell’atteso pranzo che l’aspetta l’indomani. L’uomo riesce a addormentarsi così, limitando a mezza dose la melatonina. Dorme profondamente, sognando sogni fitti di cose, tra cui diversi fatti stringenti, e ritiene infine di svegliarsi l’indomani molto riposato. All’accesso al ristorante, tra mura di pietra calcarea con volte a botte e a crociera, tutto appare investito da una luce calda e l’atmosfera è apparentemente piacevole, strana, raccolta e rilassante. Lo chef de rang lo accoglie affabile e lo chiama con spiccato accento siciliano, ripetendo spesso due volte tante parole e componendo frasi fin troppo enfatiche: “Manlio, Manlio! Benvenutooo!”. Il Piccinapaga, stranito d’esser trattato come un abituale, sorride, ma è imbarazzato da tanta cordialità e aspetta che l’altro lo conduca al tavolo. Ma quello invece sorride di rimando e dice: “lo sa… lo sa? Ma lo sa qui come funziona?”. Manlio fa di no con la testa e intanto alcuni clienti appaiono nei corridoi e passano loro accanto. Il responsabile, quindi, spiega una litania che deve dire quasi a tutti i nuovi avventori: “Noi… noi, ci pregiamo di avere, qui, di avere, e cioè di essere, l’unico ristorante, l'unico al mondo, che presenta, presenta, delle pietanze diffuse in un ristorante scomposto.” Manlio, che all’inizio della frase annuiva beato, si ferma e l’osserva, certo solo di non aver capito, mentre il viavai degli altri clienti, d’un tratto, aumenta d’intensità. “Ma sì, sì” riprende lo chef de rang “ha capito, ha capito: le pietanze sono diffuse e il ristorante è scomposto”. E così, senza mai smettere di parlare, spiegare e celebrare, l’uomo conduce Manlio avanti e indietro nel corso di tutto il pranzo, accompagnandolo in giro per la villa insieme a molti, moltissimi altri ostaggi, tutti febbrili nel camminare come il migliore Charlot dei vecchi film. Viaggia così, il Piccinapaga, durante la serata, dal parcheggio fuori, dove prende l’olio, fino al bagno, nel quale gli consegnano una singola forchettata di pasta quasi cruda, scolata, e poi portata alla mensola di consumazione, stretta diciassette centimetri scarsi e posta all’improbabile altezza di un metro e quarantotto. Lì, lo chef de cuisine, uno stellato privo di peli, lo informa di persona, con accento brianzolo: “questo è il nostro: ‘imbroglio aglio, oglio, sbaglio e sbadiglio’: l’imbroglio è chiaro, è per via degli spaghetti, ma il pepe è nero e l’aglio lo trova nel letto del titolare, ammesso e non concesso che abbia un letto” e poi si mette a ridere senza un motivo. Manlio trascorre in questo modo il pomeriggio intero, tra lo spaghetto e un singolo bocconcino di cordonblè impanato al guardaroba con farina di lupini e guarnito in soffitta con salsa di carambola, gustato su delle vecchie armature medievali traballanti, tra una riduzione di litchi Valguarnera, da zuccherare di glassa di carrube proprio alla cassa dove, scandalo, hanno finito il Grammarniè. Il pasto termina poi con un cannolo da ricondurre alla normalità tra la sala da biliardo, dove il maestro scova la cialda, il ripostiglio che cela la ricotta, e il balcone con la trifora dove il vento porta via quasi tutta la granella. Un po’ sorpreso dal pasto e attaccato da un principio d'ulcera, Manlio fa in tempo a dire tra sé e sé con molta indignazione: “Che vita smodata fanno questi ricchi!”. Dopo però, d’un tratto, prendendo finalmente fiato da un’apnea notturna, si risveglia sudato nel suo letto, a casa sua, nel cuore dell’afosa e terribile pianura. E solo allora, quand’è di nuovo cosciente, pensa malinconico a quanto si dorma male a Piovelagna, forse per colpa del gas serra, oppure per i ritmi di quella vita frenetica, oppure ancora, semplicemente, perché una volta smarrita la propria latitudine, non se ne trova più una adatta per il resto della vita.
Riconoscevo la tua voce tra dozzine,
oggi non la scovo nel silenzio
che affronto armato
di virgole
e di chiacchiere,
talvolta d'una onesta solitudine,
suonando le vocali e i malumori
gemiti entrambi,
come stupidi proclami di piacere,
grappa d'ordinanza del soldato che
stenta a ritirarsi,
incitazioni a vivere
quasi frustate sulle spalle
ora appena curve e sempre abili
forti tanto
da condurre dentro al sonno,
ancora
la nota dominante di un profumo
di cenere
equilibrato miele
di bosco, di sudore e di vaniglia.
Lo sento talvolta dentro al sogno
e sogno ancora, temo,
per essere chi ero mentre migro,
ora complice spesso
in altri luoghi.
Ritrovo un po' di me così ,
dentro l'altrove
di cui non conosco alcunché.
La questione non è religiosa, ma spirituale. Lo scrivo in una sorta di dialogo a distanza a coloro (ho visto dei post ultimamente) che si pongono in modo critico nei confronti dei dogmi delle varie confessioni religiose e poi usano gli aspetti più esteriori di tali dogmi per screditare l’ortodossia (che si tratti di una critica al “no maiale”, al pesce nel venerdì cattolico o al “no crostacei” degli ebrei). Portare il dibattito su questo piano è inutile e deleterio perché, se uno scontro tra scienza e religione ha un senso per l’acquisizione di campo libero in ambito etico (cosa si può o non si può sperimentare), sul piano sociale, in particolare attaccando le manifestazioni rituali più esteriori, si va solo a riportare su altre macrocategorie (laici vs credenti) le strumentalizzazioni tra fanatici delle varie fedi che, per giustificare interessi materiali o di piccoli gruppi, tendono a raccontare come culturale uno scontro che di culturale ha ben poco (che si tratti di una guerra o di un riconoscimento sociopolitico, come l’entrata nell’Unione Europea). Io sono lentamente e felicemente scivolato in una situazione di totale ateismo dopo una lunga fase di agnosticismo. Confesso che non disdegno di fare, in contesti dove l’ironia viene colta insieme all’affetto e non è strumentalizzata, qualche critica più pungente detta a chi capita, ma indirizzata a chi trasforma quel credo in un piccolo esercizio di potere (all’amica - carissima - e collega di religione): “Dio deve esistere per forza, altrimenti come spieghi tutte queste cattedre di religione?”, oppure “Il 25 dicembre festeggio Voltaire e Diderot e, a chi mi contesta che non sono nati in quella data, rispondo che lo stesso vale per Gesù Cristo”. Non disdegno di fare questo tipo di provocazioni laddove sia chiaro che non pungolo chi crede, ma chi fa del credo altrui un tornaconto personale. Al netto di questo, sono convinto che la questione religiosa nella vita dell’uomo contemporaneo non si esaurisca riportando tutto a un semplice razionalismo perché ritengo che tutti, ma proprio tutti, viviamo (chi intimamente e chi più apertamente) un grande desiderio di trascendere.
Il problema è, e forse l’era del marketing ha aperto più di qualche mente, come far sì che quel desiderio di trascendere venga appagato e non venga strumentalizzato. Quindi alla fin fine, il problema è capire quali attributi "veri" possa avere quell’anelito.
Il soddisfacimento di un senso di giustizia rimandato all’ultraterreno (Camus già lo considerava un passaggio "fallito"), ha ormai un senso limitato e vive il superamento dato da dogmi non religiosi, spesso commerciali (beni di consumo come surrogati di felicità), ma ha spesso ancora una dimensione molto vistosa nella nostra vita, soprattutto in Italia, un luogo in cui con queste leve retoriche si vincono elezioni illudendo molti di essere sempre e "a prescindere" dalla parte della ragione.
La verità, rispetto a questo desiderio di trascendenza che permane in chiunque è, secondo me, molto più banale, anche se non sento più quasi nessuno parlarne a voce alta: il paradiso esiste solo al di qua della morte e risiede in una vita che contempli sempre, costantemente l’idea dell’altro e dei suoi bisogni. Semplificando, il paradiso, e dunque quella volontà di trasfigurarsi in qualcosa che perduri oltre le proprie spoglie mortali, è il semplice sguardo di gratitudine di qualcuno a cui offriamo un aiuto disinteressatamente, che sia un bambino che chiede un chiarimento o un immigrato che viene a pagarci le pensioni e sommessamente chiede diritti e dignità. Mi dispiace che questo sembri poco rispetto alla vita eterna, alla potenza che "move il sole e l’altre stelle", al sedere alla destra di… la verità, semplice, è che manca la risposta dei laici a chi chiede, a chi reclama quel senso di giustizia terrena o trascendenza ultraterrena. La risposta è, secondo me, che il fare del bene al prossimo non è un mezzo per avere dopo chissà cosa, ma è già di per sé il fine.
Poi si può fare anche altro: inventare un robot da cucina o fondare un’associazione culturale, ma fondamentalmente bisogna ragionare sul fatto che l’integralismo inizia con il pensiero strettamente individuale o strettamente familista. Evitiamo le sferzate polemiche e concentriamoci su quali sublimazioni di noi stessi possiamo regalarci qui e ora, affinché non capiti più tanto spesso che qualcuno pensi (tanto per dire): “oh… ora metto su gli addobbi di Natale e dopo con calma vado a rifilare a quel cliente il cambio della scheda elettronica della lavatrice anche se gli basterebbe sostituire un fusibile”.
Un personaggio come tanti (reale), che di questa e di altre magagne ormai non sente neanche più il bisogno di “confessarsi”, tanto quelle due o tre parole in latino le ha imparate a memoria e può persino recitarsele da sé.
L'immagine si riferisce a un'associazione a me molto cara che da anni svolge importantissime attività sociali in Brasile.
https://www.facebook.com/associazionepartilhar/
Poche cose sono davvero passato, presente e futuro insieme, questa canzone per me è una di queste costanti.
Penso che ogni tanto si possa scivolare: non comporta l’obbligo di cadere. Forse sarà come mettere in acqua una zattera che navighi goffamente, ma andrà bene, purché l'acqua sia pulita.
Ugualmente si potrà evadere senza fuggire. Si inizierà ad accusare la fatica, forse, ma all’occorrenza si potranno evitare gli scalini, gli strattoni, i contraccolpi.
Pendenza era la pancia di mio padre, oggi è la gota alta del mio sorriso, mentre scrivo, forse domani sarà il dorso della collina su cui, di sera, passeggerò.
Il passato non torna, l'espressione di un viso può mutare rapida come la felicità. Forse a un certo punto non ci sarà più la forza di muovere un passo e ci si potrà solo guardare indietro. Allora si potrà raccontare le cose e incoraggiare qualcuno a vivere, anche se non abbiamo abbracciato l’epilogo che ci attendevamo, ma fino ad allora voglio guardare avanti.
Ancora si potrà partire da soli, con l'amicizia per chi lasci e già quella per chi incontrerai.
Anche domani le cose potranno essere semplici e belle, come il tratto di una penna su un foglio, o i ciottoli di una spiaggia, o una cena arrangiata con le ultime cose rimaste in dispensa.
Di nuovo, almeno qualche volta, il divertimento sarà una persona più grande che si racconta, la musica in sottofondo del vicino paese in festa, lo stupore di un tuo amico per il sorriso di una passante.
Piccole cose fondamentali ci saranno ancora, potranno avere valore al di là di ogni ragionamento, o dubbio, o distinzione.
Addentrandomi nell'età matura vedo sempre più spesso qualcosa a cui proprio non sono disposto a cedere. Una cosa che proprio non voglio fare.
Non voglio rivivere fatti del passato nei miei giorni odierni e tanto meno in quelli a venire, trasformandoli in un palco d’acciaio allestito per rappresentare aspetti irrisolvibili della vita: il passato può dirmi, e poi solo in parte, chi sono, non come devo agire. Tutto è nuovo e degno di nota se non faccio di chi mi sta davanti uno specchio di ciò che ho vissuto. C'è ancora tanto da imparare, perché smettere?
La speranza è di non esser soli, almeno non del tutto.
Spot esselunga:
comunque, se pensate di essere in una relazione felice, ma vostra figlia vi porta un caco stramaturo, una prugna secca o una banana annerita, forse è arrivato il momento di fare una seria riflessione.
Le città dei ponti.
Le città dei ponti non assomigliano né a Messina, né a Villa San Giovanni, anzitutto perché, nelle città dei ponti, essi non vengono costruiti per “portare sviluppo”, ma per unire persone. Nel loro aspetto più simbolico, infatti, sembrano la Mostar dell'anteguerra o del dopo ricostruzione. Le città dei ponti, nel mio fantasticare quotidiano, si fanno cullare tra le pance di colli docili, dei quali replicano, in scala, le morbide eccentricità. Sarà la febbre (che oggi ancora ho), ma immagino che si raggiungano infatti dopo un dolce sali-scendi di pendenze e un morbido dondolare di oscillazioni laterali. Le mie città dei ponti ne ospitano di vario tipo: a campata unica, a più campate, sospesi, levatoi, girevoli, ribaltabili, sollevabili e ce ne sono perfino di tibetani. Ci sono pochissime case, tanto che, quasi tutti i ponti non portano in luoghi ben precisi e ciò fa molto divertire i bambini. Questi ultimi guidano infatti i loro genitori capricciosi durante i lunghi giri in bici che costituiscono la principale attività della cittadinanza. La maggior parte dei ponti, nelle città dei ponti, sono ideati da architetti che disegnano bene e vengono costruiti al solo scopo di armonizzare il più possibile il rapporto tra l'uomo e la natura circostante, senza cioè che ci sia un vero bisogno di colmare vuoti o depressioni. Ciononostante, essi vengono realizzati senza inutili sprechi di denaro. Gli abitanti delle città, non usando le auto, non litigano mai per un parcheggio, non fanno incidenti e non si ammalano di esaurimento nervoso, il che va a vantaggio delle strutture sanitarie, di cui infatti, nella città dei ponti, quasi non c’è bisogno. Nelle città dei ponti la frase "andare a vivere sotto un ponte" non evoca affatto lo spettro della povertà, ma semplicemente il ritorno a una condizione di normalità, dal momento che la maggior parte dei cittadini, vive già sotto le accoglientissime arcate. Purtroppo, specialmente in estate, con l'arrivo di migliaia di visitatori, parte della cittadinanza, sacrificandosi volontariamente, si trasferisce nelle poche abitazioni presenti. Queste ultime, edificate in cima a delle latomie, sono collegate tra di loro da lunghe passerelle di castagno stagionato sulle quali si può sostare fino a tarda notte. Ogni città ha un suo pontefice, che non è un canuto ecclesiastico, ma, secondo uno degli etimi più comuni, un umile capomastro. Egli, con l'aiuto di tutta la cittadinanza, pian piano, collega fisicamente le persone e le cose secondo i dettami stabiliti dagli architetti e secondo i bisogni della popolazione, ma soprattutto senza fare economia sulle dosi del calcestruzzo che talvolta utilizza.
Questi pontefici sono molto ammirati da tutti gli abitanti delle città, perché, e ne vanno orgogliosissimi, in tutta la loro carriera non hanno mai costruito un solo muro. Nelle città dei ponti, internet c'è: serve a mettere in comunicazione le persone che abitano in città così lontane che non sarebbero collegabili da ponte alcuno, ma lì, nei loro social, non si parla di come l’orso marsicano cacci topi muschiati nella steppa russa come pretesto per venderti pacchetti vacanza in Kazakistan.
Le connessioni funzionano con ponti-radio (ma questo è un altro discorso).
I governanti non chiedono mai prestiti-ponte a spese dei contribuenti per salvare singole aziende di privati (ma questo è un altro discorso).
Le città dei ponti sono collegate da treni lenti, ma puliti (sui ponti devono rallentare), o eventualmente si possono raggiungere in traghetto (il passaggio-ponte è gratuito).
Per prenotare un soggiorno vacanza (anche per soggiorni brevi o durante i "ponti festivi"), si potrà bloccare un'arcata telefonando anche all'ultimo momento.
Per chi invece volesse ottenere la cittadinanza onoraria, sarà sufficiente presentarsi alle porte della città e mostrare quella sincera curiosità verso il prossimo e verso le cose, la sana curiosità che contraddistingue le belle persone.
A proposito, grazie della curiosità che vi ha spinto fino a questa riga!
«Non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra disuguali». Intanto il privato continua a espandersi nella sanità (in questi giorni arriva anche alla medicina d'urgenza), mentre per l'istruzione l'escalation è stata continua. Poi leggo di intellettuali che quasi giustificano questa roba per via della stagnazione/recessione economica. Come se non esistessero gli evasori fiscali (e il passaggio di normalizzarli a livello di opinione pubblica fosse obbligato). Non è vero, non corre quest'obbligo. Anzi, anche rispetto a questi "paesaggi sociali", forse a maggior ragione perché tali, bisogna far valere le parole di Impastato: "All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore".
"Matrigna sarà lei" mi direbbe se potesse la natura...
Appunti di viaggio: gli ambulanti in spiaggia in Spagna sono tutti sorridenti e socialmente molto apprezzati.
Mi chiedo quale sia la ragione...
sarà forse per il piccolo dettaglio che vendono sangria invece che il nostrano, salubre e dissetantissimo "coccobbello"?
Tutti scandalizzati per la venere pop in stile icona usa e getta. Giusto, anzi, giustissimo. Lo scandalo, però, sia chiaro, non dovrebbe essere per la desacralizzazione di una delle più belle immagini pittoriche mai prodotte dall'uomo, (per giunta con quel piglio di finta indignazione propria dei peggiori bacchettoni, come leggo, tutti un po' critici d'arte ingessati e un po' invasati, in stile comitato strareazionario pro famiglia tradizionale...), ma il fatto che la "venere-gatta morta" (ancora a proposito di gatti), sia il corrispettivo di una società superficiale, frivola, vacua, inconsistente eppure assolutamente reale. Questo secondo me dovrebbe essere il sacrosanto motivo di malcontento. Il problema è che poi, invece, passata la polemica, di tutte le mancanze che rendono la società frivola, superficiale e inconsistente, dalla totale incuranza verso i problemi della scuola, allo stato di abbandono in cui versa la cultura in Italia, specie quella meno "istituzionale", non importa un accidenti a nessuno. Quindi, oggi all'amo sulla polemica anti-pop/trash, domani all'amo con l'esatto contrario. Fare opposizione sulla sostanza dei problemi non paga? Sarà anche questo, di nuovo, emblema di qualcosa?
"Captato un misterioso segnale radio dallo spazio: gli alieni vogliono dirci qualcosa?"
Anch'io l'ho captato. L'ho anche decifrato e dice: "spegni il motore del tuo cazzo di suv che all'uscita da scuola di tuo figlio mancano ancora 40 minuti e la puzza di gasolio combusto è arrivata fin qui, coglione".
Ora, soprassedendo sulle parolacce aliene, vorrei dire che se l'ho capito io...
Ma la retorica mediatica viene subito mitigata dai miei acufeni e io sento:
"vorrei spezzare un'arancia a favore del lavoro nei campi".
Intanto m'interrogo sul perché il ministro lo dichiari da un comodo divano giornalistico filoministeriale...
acufeni maledetti, non fate che "aizzarmi" (dal divano)... io che passivamente vivo così bene!
A causa vostra non sono (quasi) mai "accomodato".
Comunque, saranno gli acufeni di cui soffro per colpa di certi chitarristi... ma io ho sentito:
"la DC non l'ho prosciugata io, non sono Mosè".
I fischi alle orecchie mi suggeriscono le cose che pensava Pasolini, guarda un po'!
Intanto la realtà mena e se ne fotte delle campagne elettorali:
https://www.tpi.it/ambiente/acqua-dolce-2030-carenza-idrica-riscaldamento-globale-siccita-migranti-pandemie-20230402997330/?fbclid=IwAR2bWViZQHqTq57iq14WybPXMj6j27r1SaiG7gYvPXQat0M8BvimgKXOmmY
...e comunque...
nel mio Sanremo quantistico visto nel wormhole, si esibivano tutti nello stesso istante: Zilli, Zanicchi, Pizzi, Zarrillo, Drupi, Pupo, Scialpi, Renga, Minghi, Mango e Mengoni. E poi: Volo, Villa, Vallesi, Venuti, Consoli, Cocciante, Levante, Ferrante, Ferradini, Pausini, Masini, Mannoia, Mietta, Modugno, Cutugno e Calcagno. Ruggiero, Ruggeri e Ranieri. Il festival durava i quattro minuti delle canzoni suonate all'unisono e non bisognava stare svegli fino alle due di mattina durante i giorni lavorativi... Alcune esibizioni erano più emozionanti di altre, come appunto quella della Pizzi, il cui "grazie dei fiori" colorava di un'inusitata gentilezza il vaffanculo di Masini che le faceva, insieme al resto, da contrappunto.
Quattro minuti.
Breve, rapido e indolore.
Praticamente un sogno...
Un aspetto dell'insegnamento di cui nessuno mai parla è il lutto.
Certo, forse nel mondo scolastico, al netto del non essere umanamente predisposti, in quanto a rapporti ad alto rischio di sofferenza, ci sono situazioni inevitabilmente coinvolgenti e altre in cui si parte "più preparati", almeno sulla carta, come quelle date dal disincanto affettivo dopo lunghi anni di precariato; situazioni personali di lunghe traversie, spesso in viaggio per tanto tempo in tutta Italia, in cui le insegnanti sono preparate al lutto insito nella ciclicità del lavoro, proprio per i numerosi incarichi brevi che precedono la vera continuità di servizio su una singola classe. Anche in questi casi però non c'è nulla di scontato e l'insegnante, giunta al primo vero incarico, potrebbe sentire di voler finalmente esprimersi a pieno sul piano personale, tanto da soffrire invariabilmente la separazione alla fine del ciclo. Qualcuno nel sentir questo penserà: "davvero di questo scrivi? No Luca, qui sbagli, non è professionale pensare davvero di mettersi costantemente in gioco nello svolgere questo lavoro e non è professionale dire a voce alta che in questo lavoro c'è un continuo rinnovarsi e disfarsi di legami affettivi". Secondo me questo è proprio il nervo scoperto di cui nessuno parla mai, che riguarda il divario tra chi continua ad aprirsi incondizionatamente agli alunni e chi pensa che prendere dai venti ai venticinque bambini a 6 anni, accudirli, istruirli e dare loro ogni sorta di attenzione fino agli 11, sia semplicemente parte di un "servizio".
Alla fine del mio primo ciclo, senza un solo giorno di precariato alle spalle, soffrii come un cane (per fortuna rendendomi conto dell'imminente separazione qualche mese prima degli alunni, che fui poi in grado di supportare quando venne il loro turno).
Mi avrebbe fatto bene un anno di lavoro in ufficio prima di ricominciare, ma, com'è noto, il sistema scolastico non prevede questi contrappesi (il passaggio a un incarico tecnico-amministrativo è irreversibile e, scandalosamente, comporta l'azzeramento degli scatti stipendiali).
Feci del mio meglio con la classe seguente, una terza già molto impostata, e con un certo numero di genitori oppositivi che, nell'anno della crisi finanziaria del 2008, d'un tratto, avendo perso il lavoro e dopo avere considerato per anni l'insegnamento una faccenda da "morti di fame", non mancò di mostrare a me, insegnante giovane, (forse) bravo, ma (tra l'altro) "non indigeno", una certa invidia per la stabilità lavorativa.
In seguito tenni un incarico per più breve tempo durante il quale compresi che altrettanto crudele del perderli a fine ciclo, era il viverli tiepidamente ogni giorno, e che non avrei potuto svolgere questo lavoro, presumibilmente per tutta la vita, senza quel grado di coinvolgimento che mi aveva "felicemente massacrato" al termine della prima esperienza. Fu per questo che, come scriverebbe Milton Erickson, operai una "ristrutturazione" della faccenda, cambiando dentro di me un piccolo presupposto: smisi di pensare che il rapporto umano dovesse corrispondere al ciclo chiuso della relazione a termine docente-alunno. Questo fatto, che ha cambiato tutto salvando capre e cavoli, a sentirlo, a tratti può sembrare scontato, e invece non lo è e non lo era affatto, nell'insegnamento in generale e nella mia vita in particolare.
Lo so, può sembrare una roba da dissociati ma, praticamente, io, oggi, quando entro in classe, non vedo dei bambini con il moccio che "rompono le scatole" con capricci effimeri e, talvolta, con bisogni affettivi "spaventosi" (nel senso "da cui fuggire" e rispetto ai quali mi ritengo orgogliosamente presente), no, io vedo dei futuri ventenni o dei futuri trentenni che mi mandano una mail ogni tanto per raccontarsi e chiedere di me. Lo so, la stragrande maggioranza dei casi dimostrerà che sono un illuso: per molti, anzi, quasi per tutti, l'idea della mail non sfiorerà neanche l'anticamera dei loro preziosi cervelli, ma il fatto che quando li rivedo si ritorni alla familiare confidenza in pochissimi istanti, mi sembra la prova che, per quanto le mail o le telefonate potranno un giorno scarseggiare, la mia ristrutturazione non è del tutto la bugia di comodo del momento. Insomma, su questo, sono portato a essere ottimista: quello che scade è il termine scolastico, mentre il legame finisce solo se non lo si vuole o non lo si può più coltivare.
Ciò che mi manca enormemente nel rapporto coi piccoli (e che cerco altrove) è il confronto intellettuale (non a caso stono grandemente la testa a molte colleghe e a qualche amico caro molto colto, quando lo vedo). Questa mancanza di un confronto su temi complessi tra le pareti di una scuola primaria, con gli alunni così piccoli, è parte di quella benzina che ancora mi tiene acceso, seppur con crescente fatica, tra mezzanotte e le due di mattina, ma questa è un'altra storia.
In foto una vite della varietà Cardinal, regalo totalmente spontaneo di qualche anno fa della mia "ex" alunna C.
In Sicilia si usava, specialmente negli anni ’80, comprare e regalare ai bambini, per il Giorno dei Morti, delle pistole o dei fucili ad aria compressa. Funzionavano con un sistema di compressione a leva, senza la ricarica con bomboletta. I bambini ne andavano matti e, ottenuto questo ambito dono, andavano poi in giro a sparare “gommini” rossi e gialli, ovunque e con un certo orgoglio.
Io vivevo in un quartiere popolare, dove possedere queste pistolette era quasi un obbligo.
A me non fu mai comprato uno solo di questi giocattoli perché a casa mia, anche se erano solo “dell’allegria”, come Rodari le aveva definite, era vietato persino pensare che delle armi che andassero oltre il semplice rumore, potessero essere considerate un dono per bambini. Eppure, non fu solo per questo tipo di educazione che non mi appassionai mai al mondo militare (sebbene, alle giostre, dove mi era concesso sparare, avessi una mira eccellente): il punto è che avevo a scuola chi mi insegnava bene e avevo in casa, sotto i miei occhi, le sofferenze di chi la guerra l’aveva fatta davvero.
La scuola e le “buone regole” furono tantissimo, ma la testimonianza diretta mi lasciò un segno profondo.
Lui ne parlava sempre malvolentieri e di rado (anche se io chiedevo spesso, con lo zelo che tutti abbiamo provato quando abbiamo scoperto la storia contemporanea, cercando di fissare nella mente luoghi, episodi e avvenimenti).
In estate, quando si stava stretti in una casa poco spaziosa, una vecchia casa che riuniva in modo patriarcale tutta la famiglia, mi capitò di dormire con lui nello stesso letto e mi venne un colpo quando, ancora dopo quarant’anni dai fatti che sognava, nel cuore della notte, iniziò a gridare in preda alla più buia disperazione, quasi senza riuscire a svegliarsi.
“Nessuno tornerà più come era” canta Capossela.
Non ho mai detto quasi a nessuno cosa mi rispose quando gli chiesi cosa aveva sognato e non ne parlai più neanche con lui, sia perché era stato un momento incredibilmente intimo, in qualche modo, da commilitoni, sia perché alcuni ricordi sono come le castagne matte che i bambini tengono in tasca per scacciare il raffreddore, amuleti da proteggere dentro se stessi, per essere certi che non si sciupino nell’inutile atto di rievocarli, cardini su cui far girare tutto il resto, che ti impongono delle nette prese di posizione e, al di là della convenienza del fine contingente, perdurano come cause per il resto della vita.
Pensava in modo simile, riferendo la cosa alle ragioni di alcune sue scelte personali, anche una persona a me cara che conobbi molti anni dopo, con cui divisi un breve tratto di cammino e che spero di poter incontrare ancora, prima o poi.
C’erano Tina (che stava per “Brillantina”), Nelina, Maria la pugliese, c’era Alice col suo tic (quale fosse proprio non si può dire) e poi c’era lei. Al centro diurno per anziani P. la più ambita era E. .
E. non solo aveva un sorriso coinvolgente e sorrideva sempre, ma era anche sofisticata, nel parlare e nel vestire, e sapeva comporre le frasi in modo che tutto quello che diceva suonasse sempre come una provocazione maliziosa, e purtuttavia, la stessa frase, estrapolata dal contesto, perdeva poi ogni potenziale erotico e suonava come la dichiarazione di un agnellino: “eh! Oggi anche la carne ha un costo mica da ridere…”.
Parliamo naturalmente di anziani dagli ottant’anni in su che raggiungevano il centro diurno a piedi se abitavano nei paraggi ed erano ancora autonomi, oppure venivano prelevati a casa da noi obiettori di coscienza in un pulmino da sette posti e lì portati per stare in compagnia per tutto il giorno.
E. era corteggiata in particolare da due uomini, Cesare e Michele. Il primo, un ex operaio ed ex partigiano con un debole accenno di Parkinson, era così certo del fatto suo che pretendeva che gli operatori convocassero la famiglia di lei per comunicare la data in cui E. si sarebbe trasferita a casa sua, e il secondo, un ex artigiano rimasto totalmente solo e caduto in disgrazia, era invece più vago e cercava di convincerla a suon di poesie che Cesare non era adatto a lei perché era uno spiantato.
Se pensate a un triangolo amoroso puramente platonico vi sbagliate: bisognava costantemente impedire che durante il riposino pomeridiano tentassero di alzarsi dal proprio lettino.
Perché, tra tutte, E. era la più ambita?
La ragione è più sorprendente di quanto si possa immaginare: l’Alzheimer di E. era a uno stadio ben preciso, che le impediva di ricordare quello che era successo il giorno prima e così, la donna, ogni giorno, ammiccava verso i due uomini con la stessa genuina e garbata civetteria del primo giorno in cui si erano trovati al diurno.
Per i due uomini era una specie di giorno della marmotta dell’innamoramento, un fantastico modo per allungarsi la vita in un’interminabile altalena di emozioni romantiche alla conquista di una donna impossibile, icona perfetta della vera femme fatale: E. era bella sì, forse più delle altre, ma era soprattutto l’irraggiungibile per la quale, per quanto si sforzassero di mettersi in mostra, i due sarebbero rimasti per sempre degli estranei.
È proprio vero che, dal momento che nasciamo scalciando, continuiamo a scalciare per tutta la vita; personalmente quando penso a quegli uomini, a Cesare in particolare, mi viene in mente l’utopia di Wilde secondo cui la felicità non è avere ciò che desideri, ma desiderare ciò che hai (ammesso che tu abbia qualcosa).
E., comunque, doveva davvero essere stata una bellissima donna, e certamente Cesare e Michele avevano avuto l’occhio lungo. A me l’anziana, a differenza delle altre, non rivolse quasi mai la parola, non mi rivolse mai un saluto gioviale o una frase di circostanza, però guardandomi, in pulmino o nella sala lettura del centro, più di una volta intonò:
“è una semplice canzone da due soldi
che si canta per le strade dei sobborghi
e risveglia in fondo all’anima i ricordi,
di una dolce e spensierata gioventù”
ed è per questo che oggi conosco questa canzone
(Oltre a qualcuna del Quartetto Cetra).
mi ha tolto tutto,
il mio paese,
mio padre quando ero un bambino,
e la possibilità di farne parte di me,
la postura eretta del ragazzo,
piegato da anni di fatiche,
il sogno di essere significativo,
almeno un po’ oltre la voglia di far sorridere,
e la capacità ottusa di convincermi
che sempre ne valga la pena.
Ha tolto il senso della mia cultura,
il mio paese,
fatta di ponti tra il libro di stanotte e i princìpi arcaici,
obblighi dolorosi e dimenticati,
di una famiglia svanita tra malattie e meschinità.
Ha reso inutile la conquista volenterosa
di un pensiero educato a comprendere
affinché fosse lasciata, quella cultura,
nel baule buio del “si vedrà”,
e lì dimenticata tra piatte formule
quotidiane più della benzina e del pane:
“le faremo sapere”;
“non demorda”;
“deve assolutamente continuare”;
riferite a fiori fragili costruiti dal debole,
dalla bellezza opinabile e trasparente,
carta di riso,
già logora appena distesa,
vita residua nonostante,
nel rumore bianco e nella sordità dei giorni interminabili,
quasi sfondo di figure risibili e dominanti,
e sempre descritta dalle parole, dai suoni e dai colori soffocati
nel cassetto sudicio,
confezionato in qualche modo dal mio paese;
nell’angusto inaccessibile
per chiavi taglienti, pensieri veloci, futili e strumentali,
che rapiscono gli occhi e i gesti.
Ha fatto brani della mia vita,
il mio paese,
poi li ha inghiottiti e defecati,
e oggi ancora solo mi concede,
che io possa distrarmi un po’,
e nella serenità apparente della distrazione,
perduta l’attenzione, aspetta che io,
placidamente,
mangi
Diciamo subito... il benzene è la sostanza volatile con quell'odore pungente che sentiamo quando ci riforniamo al distributore.
A parte alcune certezze assolute (a Siracusa questo "idrocarburo aromatico" corrode la segnaletica orizzontale e tenta di intaccare il mio amore per la gente), la storia che mi porta al benzene è davvero strana.
Ero solo un ragazzino e ricordo bene che io e mia madre eravamo alla pompa di carburante in fondo a via Augusto Von Platen, a Siracusa, con la nostra comodissima 127 color argento (che molto più tardi alcuni amici scherzosi - grazie Lele! - avrebbero ribattezzato "la démodè").
Lì c'era un benzinaio simpatico che faceva tanti sorrisi agli automobilisti (e soprattutto alle automobiliste) e, intanto che riforniva gli uni e le altre e "dava loro la chiacchiera", metteva nove mila lire di benzina se ne avevi chieste dieci, diciotto se ne avevi chieste venti e così via. In famiglia fui io ad accorgermi per primo che il tipo faceva la cresta sul rifornimento perché quel giorno, lo ricordo come fosse oggi, ero seduto sul sedile posteriore per via di un carico di libri posto su quello anteriore (mia madre viveva sommersa da libri e dispense ovunque, ne avevamo persino in una vecchia credenza, al posto di piatti e bicchieri). Quindi, dalla mia posizione privilegiata, anche se il sorriso smagliante dell'attempato reclamava a pieno titolo la mia complicità da ragazzino "babbo", dissi a mia madre "vedi che quello fa il simpatico, ma è un pagliaccio... non ti ha messo venti. A diciotto si è parato davanti al contatore e l'ha azzerato...". Mia madre rispose "no, ma che mi stai dicendo? Avrai visto male Luca...". E io "boh, io ho visto che si fermava a 18...al tuo posto cambierei benzinaio". Poi aggiunsi "però questo odore di benzina che è rimasto in macchina mi piace un sacco...".
"Ah davvero? Io invece lo trovo rivoltante..." (la mia mamma era spesso indignata verso tutto ciò che reputava rivoltante, o meglio, che le dava il "voltastomaco").
Un altro evento importante sul benzene, che discende dal primo, riguarda il servizio militare. Una volta, quando la leva era obbligatoria, in quarta o in quinta superiore, ti arrivava la chiamata per la visita medica con cui ti avrebbero reso abile e arruolato, appunto obbligatoriamente, oppure ti avrebbero considerato non idoneo e quindi "riformato" (mai capito cosa c'entrasse, etimologicamente, l'esclusione dalla leva, con l'azione di "riformare"). Comunque, come tutte le cose imposte "per legge", non c'era una logica (o una concertazione) e quindi dovevi sottostare ai loro calendari di chiamata. A chi era nato nei primi sei mesi dell'anno, toccava la marina, chi era venuto al mondo da luglio in poi andava nell'esercito, i belli sopra il metro e ottanta erano candidati granatieri, e per chi ci credeva fino in fondo c'erano il corpo dei paracadutisti o il battaglione San Marco. Sorvolando su come andarono le giornate nel complesso (ci sarebbero tante storie carine da riportare), la cosa che vorrei menzionare è il momento della valutazione psicoattitudinale. Sarà perché avevo i capelli un po' lunghi o perché ero alquanto scettico, ma nel momento del colloquio mi fu chiesto: "lei ha scritto che ama i fiori, poi, poco dopo, ha scritto che mai farebbe il fioraio, come lo spiega?". Io avrei potuto dire che venivo da una famiglia contadina, che mio nonno, quando ero bambino sfregava la zagara tra le dita prima di farmele annusare, o che avevo trascorso molte sere d'estate sotto a un gelsomino fiorito dal profumo meraviglioso, sempre nella casa del nonno, oppure che, sempre lì, avevo ammirato le rose antiche e setate dai colori seducenti di mia nonna, e avrei poi potuto aggiungere (da "ambizioso" inconsapevolmente ignorante) che tuttavia, per esigenze di "progressione sociale transgenerazionale" (forse avrei già potuto definire così la cosa), non potevo diventare "solo" un contadino.
In quell'età stupida in cui sei conformista, tuo malgrado, proprio quando ti credi un outsider, dissi invece "se è per questo, mi piace anche l'odore della benzina, ma non significa che nella vita io voglia fare il benzinaio".
Se fossi stato un po' meno stronzo e avessi risposto spiegando perché amavo i fiori, forse mi avrebbero riformato (come minimo per troppo sentimentalismo) e mi sarei risparmiato il tranello mentale di studiare, all'inizio, solo per non partire soldato. Invece a quella mia rispostaccia l'ufficiale di turno mi dichiarò abile e arruolato e mi rimandò a casa con un congedo "limitato e provvisorio" che mi diede molto da pensare sul mio conto e sul mio futuro.
Questi, fino all'anno scorso, gli unici due avvenimenti della mia vita legati al benzene.
Poi purtroppo, a marzo 2022, d'un tratto, è arrivata la notizia che mia mamma stava male e, in qualche giorno, anche la notizia che i suoi livelli ematici non erano bassi per una semplice ulcera o per un'emorragia gengivale, ma perché, a causa del benzene e forse anche dei pesticidi, la mamma, a cui quell'odore dava appunto "il voltastomaco", la mamma, dicevo, che veniva da quella famiglia di contadini che sugli ortaggi non aveva mai messo un bel nulla, aveva sviluppato una brutta leucemia che, abbinata al covid, se l'è infine portata via in due mesi e mezzo.
Peccato davvero, perché mia mamma era, seppure inquieta ed esigente, una persona meravigliosa. Non c'è molto da aggiungere, a parte le scuse a coloro che non l'hanno saputo o che l'hanno saputo molto tempo dopo, ma come potete immaginare, eravamo tutti sconvolti. Potrei forse scrivere ancora qualcosa, non per rabbia, lo giuro, ma giusto per apostrofare i due attori principali di questa vicenda: i pesticidi e il benzene. Lo farei senza spirito di contestazione, solo perché ci sono casi in cui le domande sono più importanti delle risposte.
Ai pesticidi, proprio direttamente a loro, farei due o tre domande che sottendono un appunto di massima valido, a mio avviso, anche a Locorotondo, a Terracina, a Piovarolo o a Piovelagna, e cioè: la sostenibilità delle colture, può ancora essere secondaria rispetto al superamento del vostro utilizzo? Ci sono già oggi varietà vegetali resistenti, o dobbiamo ancora ingollarvi a tutto spiano per far girare un pezzo di economia di cui noi comuni mortali non vedremo neanche le briciole? Quante altre varietà resistenti si possono creare a partire dalle macerie di questo sistema produttivo? Siete da accettare passivamente come una delle "semplici" ricompensazioni maltusiane (secondo cui il sistema "elabora" da sé malattie, epidemie e guerre per compensare la penuria di risorse) a vantaggio degli egregi sopravvissuti (noi "resistenti-finché-dura", e quelli che possono comprare ogni giorno un vero biologico)?
Questo chiederei ai pesticidi.
Per il benzene la storia cambia e le domande che ho in testa sono tante. Sono tutte senza risposta, e sono le stesse potenziali degli amici siracusani che conosco e che non osano nemmeno pensarle, un po' perché - anche se meno del marketing - "ibbenzene iè lavoro" (per chi? in quale cornice di regole? con che ricadute economiche sulla società siracusana? con che bilancio tra economia e salute? con che qualità delle strutture sociosanitarie?...) e un po' perché, io lo capisco, non si può vivere ogni giorno raccontandosi la favola della "città del sole" e al contempo farsi certe domande. Per cui mi astengo e mi limito al gioco leggero di scrivere:
"Caro benzene, vorrei chiederti...", lasciando la frase a metà, sicuro del fatto che ognuno di voi, amici, potrà completarla liberamente, a proprio piacimento, in base alla propria soglia di indignazione, alla propria sensibilità e alla propria cultura.
Nel frattempo, se non vi secca, io e mia mamma, quella mamma eterna che mi porto dentro, proviamo ancora, nonostante tutto, nonostante il "voltastomaco" (che oggi un po' ha contagiato anche me), a farci due risate con questa meravigliosa cover dei qbeta, geniale ristrutturazione in stile ready-made, della peculiare gioia di vivere tutta siracusana.
Scusate se è poco.
Ti voglio bene mamma!
P.S. Il servizio civile sostitutivo svolto a Bologna con gli anziani in un centro diurno, con anche ex militari ed ex partigiani (insieme), molti anni più tardi, è stato un'esperienza fantastica che mai e poi mai dimenticherò e, anche se il mio congedo, ora illimitato, è ancora, per legge, "provvisorio", lì di questioni militari (e di guerra) si parlava con ben poca retorica.
Lì i fiori, chissà perché, piacevano a tutti.
#mamma #bias #benzene #pesticidi #fiori #qbeta
un'ingiustizia inappuntabile
il non potere
portare questa luce
tutta
oggi sodale amica
di breve e cristallino vedere
alla meta del mio tornare
dove
mi toccherà il custodirla dentro
e non poter più dire
con identica intenzione
casa
L'Istituto di statistica e marketing del cazzeggio su quisquiglie come il cambiamento climatico, FIELIO, ha da poco emanato un dispaccio con gli HTT del momento. Secondo FIELIO (FIele-LIvore-Odio), per mantenersi saldamente vicini i propri elettori in questo periodo bisogna seminare odio indiscriminato sui seguenti Hate Trend Topic:
- I gatti.
- Gli uteri.
- Gli uteri dei gatti in affitto.
- Gli uteri in affitto dei gatti social che NON sono abbastanza fighi da far dire alle uretre degli elettori "che coooariiiinooo".
- Martin Lutero e l'utero di Luther Blissett entrambi afflitti per gli affitti delle uretre dei cani.
- I gatti che pur ascoltando in tv lo scandalo delle uretre dei cani in affitto non si distraggono dai problemi in comodato d'uso di questo paese del c...
- I gatti "coooariiiniii" che ti fanno mettere un meritato like sul profilo di Jack lo Squartatore, ma non su quello di Mosè.
- Le donne e gli uomini con profili social in affitto su cui i gatti danno una spruzzata e vanno via a cercare un utero per dimenticare.
-L'utero delle pietre dell'Adige con cui lapidare i gatti social di Mosè e Lutero.
-L'utero di Lutero che affigge cartelli "affittasi" sul portone della sede UE di Wittenberg.
- I gatti infelici perché non hanno una mamma e non hanno un papà.
- I gatti infelici perché hanno una mamma e un papà . (E per questo si consolano annegando i loro problemi nell'utero).
Grandi esclusi della settimana: l' utero di Pasquino che commenta: "estica***".
L' Istituto di Statistica FIELIO ha da poco rilasciato un bollettino degli HTT del momento. Per chi non lo sapesse si tratta dei topic su cui conviene battere nei post dei propri profili social per aumentare il numero di followers.
Secondo l'Istituto FIELIO (FIELE-LIVORE-ODIO) conviene che, per fidelizzare nuovi followers, si insista con un odio viscerale contro i seguenti Hate-Trend-Topics (in ordine di importanza):
1°i gatti,
2,° quelli che odiano i gatti,
3° quelli che lucrano fingendo di odiare quelli che odiano i gatti,
4° i cani,
5° i cani che non odiano i gatti generando confusione in chi ragiona a comparti stagni,
6° i cani che mordono gli uomini che idealizzano tutti i cani solo perché alcuni non odiano i gatti,
7° gli uomini che mordono i cani che non odiano i gatti perché "scusa, se sei strano tu allora io che
sono figlio di nessuno?" ,
8°i figli di Nessuno cioè Telemaco e Telegono,
9° I figli di papà,
10° I figli di buona donna,
11° i figli di un cane amato dai gatti che odiano i figli di papà,
12° i finti statisti che stilano finte classifiche sugli hate trend topic per manipolare i social su quali
debbano essere i trend topic (non cielo dicono)...
Già pronti i politici a strumentalizzare tutto lo strumentalizzabile mentre da Roma Pasquino commenta:
"Aho, che nun ce bbastavo io? Miaone attutti."
Sul prossimo bollettino degli HTT a furor di statistica: Pasquino nella lista.
L'elenco (rigorosamente finanziato dalle osterie della zona) sarà disponibile nelle prossime settimane.
Con l'occasione , miaone a tutti.