Un aspetto dell'insegnamento di cui nessuno mai parla è il lutto.

Certo, forse nel mondo scolastico, al netto del non essere umanamente predisposti, in quanto a rapporti ad alto rischio di sofferenza, ci sono situazioni inevitabilmente coinvolgenti e altre in cui si parte "più preparati", almeno sulla carta, come quelle date dal disincanto affettivo dopo lunghi anni di precariato; situazioni personali di lunghe traversie, spesso in viaggio per tanto tempo in tutta Italia, in cui le insegnanti sono preparate al lutto insito nella ciclicità del lavoro, proprio per i numerosi incarichi brevi che precedono la vera continuità di servizio su una singola classe. Anche in questi casi però non c'è nulla di scontato e l'insegnante, giunta al primo vero incarico, potrebbe sentire di voler finalmente esprimersi a pieno sul piano personale, tanto da soffrire invariabilmente la separazione alla fine del ciclo. Qualcuno nel sentir questo penserà: "davvero di questo scrivi? No Luca, qui sbagli, non è professionale pensare davvero di mettersi costantemente in gioco nello svolgere questo lavoro e non è professionale dire a voce alta che in questo lavoro c'è un continuo rinnovarsi e disfarsi di legami affettivi". Secondo me questo è proprio il nervo scoperto di cui nessuno parla mai, che riguarda il divario tra chi continua ad aprirsi incondizionatamente agli alunni e chi pensa che prendere dai venti ai venticinque bambini a 6 anni, accudirli, istruirli e dare loro ogni sorta di attenzione fino agli 11, sia semplicemente parte di un "servizio". 

 

Alla fine del mio primo ciclo, senza un solo giorno di precariato alle spalle, soffrii come un cane (per fortuna rendendomi conto dell'imminente separazione qualche mese prima degli alunni, che fui poi in grado di supportare quando venne il loro turno). 

 

Mi avrebbe fatto bene un anno di lavoro in ufficio prima di ricominciare, ma, com'è noto, il sistema scolastico non prevede questi contrappesi (il passaggio a un incarico tecnico-amministrativo è irreversibile e, scandalosamente, comporta l'azzeramento degli scatti stipendiali). 

 

Feci del mio meglio con la classe seguente, una terza già molto impostata, e con un certo numero di genitori oppositivi che, nell'anno della crisi finanziaria del 2008, d'un tratto, avendo perso il lavoro e dopo avere considerato per anni l'insegnamento una faccenda da "morti di fame", non mancò di mostrare a me, insegnante giovane, (forse) bravo, ma (tra l'altro) "non indigeno", una certa invidia per la stabilità lavorativa.

 

In seguito tenni un incarico per più breve tempo durante il quale compresi che altrettanto crudele del perderli a fine ciclo, era il viverli tiepidamente ogni giorno, e che non avrei potuto svolgere questo lavoro, presumibilmente per tutta la vita, senza quel grado di coinvolgimento che mi aveva "felicemente massacrato" al termine della prima esperienza. Fu per questo che, come scriverebbe Milton Erickson, operai una "ristrutturazione" della faccenda, cambiando dentro di me un piccolo presupposto: smisi di pensare che il rapporto umano dovesse corrispondere al ciclo chiuso della relazione a termine docente-alunno. Questo fatto, che ha cambiato tutto salvando capre e cavoli, a sentirlo, a tratti può sembrare scontato, e invece non lo è e non lo era affatto, nell'insegnamento in generale e nella mia vita in particolare. 

 

Lo so, può sembrare una roba da dissociati ma, praticamente, io, oggi, quando entro in classe, non vedo dei bambini con il moccio che "rompono le scatole" con capricci effimeri e, talvolta, con bisogni affettivi "spaventosi" (nel senso "da cui fuggire" e rispetto ai quali mi ritengo orgogliosamente presente), no, io vedo dei futuri ventenni o dei futuri trentenni che mi mandano una mail ogni tanto per raccontarsi e chiedere di me. Lo so, la stragrande maggioranza dei casi dimostrerà che sono un illuso: per molti, anzi, quasi per tutti, l'idea della mail non sfiorerà neanche l'anticamera dei loro preziosi cervelli, ma il fatto che quando li rivedo si ritorni alla familiare confidenza in pochissimi istanti, mi sembra la prova che, per quanto le mail o le telefonate potranno un giorno scarseggiare, la mia ristrutturazione non è del tutto la bugia di comodo del momento. Insomma, su questo, sono portato a essere ottimista: quello che scade è il termine scolastico, mentre il legame finisce solo se non lo si vuole o non lo si può più coltivare.

 

Ciò che mi manca enormemente nel rapporto coi piccoli (e che cerco altrove) è il confronto intellettuale (non a caso stono grandemente la testa a molte colleghe e a qualche amico caro molto colto, quando lo vedo). Questa mancanza di un confronto su temi complessi tra le pareti di una scuola primaria, con gli alunni così piccoli, è parte di quella benzina che ancora mi tiene acceso, seppur con crescente fatica, tra mezzanotte e le due di mattina, ma questa è un'altra storia.

 In foto una vite della varietà Cardinal, regalo totalmente spontaneo di qualche anno fa della mia "ex" alunna C.

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