Non si dorme mai bene a Piovelagna, forse per colpa dei gas serra, forse per via dei ritmi di vita estenuanti, oppure, può darsi, perché la latitudine è sbagliata. Non è immune da questo cattivo riposare Manlio Piccinapaga, maestro alla scuola primaria del paese e uomo con pochi, pochissimi segreti. Uno di essi è l’abbonamento alla rivista per docenti: “L’insegnamento, ma perché?”, periodico sovvenzionato dall’ENAM che affronta i temi scottanti della scuola: presenta i rischi di un’errata turnazione tra ricreazione e pulizie (con un paragrafo avvincente sul fango portato dentro dagli alunni), ospita annosi dibattiti su chi debba rimuovere dal muro gli alfabetieri in disuso, coinvolge il lettore illuminandolo sulla fisiologia dell’epidermide nello studio del rapporto tra la polvere dell’atrio e l’esfoliazione della pelle, dalla pubertà all’adolescenza, un argomento non da poco, considerando che la desquamazione infantile, dato il metabolismo veloce dei numerosi ragazzi, va ben oltre le “sole” trentamila cellule al minuto proprie di un adulto. Il motivo di tanta segretezza, tuttavia, non consiste di per sé nell’abbonamento alla rivista, ma nel fatto che il Piccinapaga l’acquista da anni solo per poter partecipare al concorso allegato, un’edizione diversa in ogni numero, che apertamente fa leva sull’inguaribile predilezione di alcuni individui, non a caso divenuti impiegati statali, per le prove concorsuali. Manlio, insomma, ama risolvere gli enigmi proposti come allegati alla rivista e spedire la cartolina di partecipazione al costo di un obsoleto francobollo.
A Piovelagna, patria di pere, pittori e petulanti, l’insegnamento è odiato o invidiato, senza mezze posizioni. Per la maggioranza dei cittadini, la scuola è naturalmente il luogo ambito in cui degli impiegati privilegiati si crogiolano in un dolce e vergognoso far niente, il nido del lavoro garantito e piacevole, dai risvolti umani sempre positivi e commuoventi, mentre le élites del paese considerano la media degli insegnanti una congrega di esseri inutili: non abbastanza indifesi per essere inquadrati e messi sotto, non abbastanza dotati per essere oggetto di un’adulazione interessata. A Manlio Piccinapaga però tutto questo importa poco, poiché a Piovelagna egli svolge il suo lavoro senza fare e senza sentire storie. Indigeno neanche alla lontana, pacato, distante e affettuosamente ignorato dai più, l’uomo si rigenera con delle lunghe passeggiate lungo il lago, con la sua collezione di ciottoli antropomorfi e, appunto, con i concorsi della rivista. Quasi non crede ai suoi occhi quando un giorno, di ritorno da scuola, aprendo la cassetta delle lettere, scopre di essere tra i risolutori dell’enigma della terzultima edizione: “Leggerezza e apprendimento: le ragioni di un ossimoro”. Manlio scopre così di avere vinto un invito nel noto ristorante gourmet “Villa Pacca” a Schettola in Enna, in Sicilia, neanche troppo lontano dai suoi luoghi natali, dove potrà constatare le ragioni del successo ottenuto dal ristorante sulle principali guide nazionali ed estere. Dopo una prima istintiva soddisfazione, il Piccinapaga, tuttavia, trascorre la giornata arrovellandosi. A lasciarlo perplesso è quella formula “Complimenti lei ha vinto un invito”, sei semplici parole che insinuano in lui il dubbio che poi, una volta a Villa Pacca, il pasto debba pagarselo di tasca propria. Manlio passa così tutto il giorno seguente al telefono, cercando di contattare la rivista, tra una selezione numerica per la voce registrata e la solita caduta della linea. Alla fine, pagando con la lunga attesa, riesce a parlare con una tirocinante in servizio gratuito effettivo alla rivista e riceve finalmente la conferma di aver ottenuto, in qualità di vincitore di concorso, non solo l’accesso all’esclusivo ristorante, ma anche il corrispettivo del conto.
Prenotato in agenzia di viaggi un volo low cost, Manlio riprende la sua vita d’ogni giorno, che d’un tratto gli pare diversa, problematica e insoddisfacente. Dopo anni di relativa inedia l’uomo inizia a porsi delle domande su se stesso, sulla propria adeguatezza al mondo, e trascorre, consumandosi, l’attesa di questo qualcosa che sarà e di cui, dopo tanti giorni di protettiva routine, non ha certezze. Le settimane che precedono l’evento lo vedono quindi inconsuetamente ansioso, in bilico tra l’impazienza di lasciare l’asfittica pianura su cui giace Piovelagna e il timore di non essere all’altezza del luogo esclusivo che visiterà. Naturalmente Manlio cerca, da professionista qual è, di non far ricadere sugli alunni gli effetti del suo nervosismo, e ci riesce inquadrando rigidamente le spiegazioni scolastiche nel quotidiano e tranquillo soliloquio monocorde a cui i bambini sono abituati ormai da due anni. Poi però, finalmente, arriva il momento e, dopo una significativa conversazione con un’hostess (nella quale si riscopre pieno di orgoglio per se stesso), dopo una rocambolesca avventura all’aeroporto di Catania, con un tassista sprovvisto di licenza, Manlio raggiunge Schettola, dove ha prenotato una garbata pensioncina. Mangia brevemente un quadratino di pizza e poi il Piccinapaga fa un giro a piedi nel centro storico, un curioso puzzle di architettura plurisecolare e friabile cemento armato, faticando non poco a schivare ragazzini inselvatichiti su motorini elaborati e rumorosi, e trovando un po’ di relax solo sulla panchina di un morente parco cittadino, in cui si ferma a leggere, guida alla mano, la storia dell’antichissima Villa Pacca. Manlio poi riprende il proprio cammino, allungando di molto il tragitto, con il preciso intento di stancarsi, per poter dormire bene in previsione dell’atteso pranzo che l’aspetta l’indomani. L’uomo riesce a addormentarsi così, limitando a mezza dose la melatonina. Dorme profondamente, sognando sogni fitti di cose, tra cui diversi fatti stringenti, e ritiene infine di svegliarsi l’indomani molto riposato. All’accesso al ristorante, tra mura di pietra calcarea con volte a botte e a crociera, tutto appare investito da una luce calda e l’atmosfera è apparentemente piacevole, strana, raccolta e rilassante. Lo chef de rang lo accoglie affabile e lo chiama con spiccato accento siciliano, ripetendo spesso due volte tante parole e componendo frasi fin troppo enfatiche: “Manlio, Manlio! Benvenutooo!”. Il Piccinapaga, stranito d’esser trattato come un abituale, sorride, ma è imbarazzato da tanta cordialità e aspetta che l’altro lo conduca al tavolo. Ma quello invece sorride di rimando e dice: “lo sa… lo sa? Ma lo sa qui come funziona?”. Manlio fa di no con la testa e intanto alcuni clienti appaiono nei corridoi e passano loro accanto. Il responsabile, quindi, spiega una litania che deve dire quasi a tutti i nuovi avventori: “Noi… noi, ci pregiamo di avere, qui, di avere, e cioè di essere, l’unico ristorante, l'unico al mondo, che presenta, presenta, delle pietanze diffuse in un ristorante scomposto.” Manlio, che all’inizio della frase annuiva beato, si ferma e l’osserva, certo solo di non aver capito, mentre il viavai degli altri clienti, d’un tratto, aumenta d’intensità. “Ma sì, sì” riprende lo chef de rang “ha capito, ha capito: le pietanze sono diffuse e il ristorante è scomposto”. E così, senza mai smettere di parlare, spiegare e celebrare, l’uomo conduce Manlio avanti e indietro nel corso di tutto il pranzo, accompagnandolo in giro per la villa insieme a molti, moltissimi altri ostaggi, tutti febbrili nel camminare come il migliore Charlot dei vecchi film. Viaggia così, il Piccinapaga, durante la serata, dal parcheggio fuori, dove prende l’olio, fino al bagno, nel quale gli consegnano una singola forchettata di pasta quasi cruda, scolata, e poi portata alla mensola di consumazione, stretta diciassette centimetri scarsi e posta all’improbabile altezza di un metro e quarantotto. Lì, lo chef de cuisine, uno stellato privo di peli, lo informa di persona, con accento brianzolo: “questo è il nostro: ‘imbroglio aglio, oglio, sbaglio e sbadiglio’: l’imbroglio è chiaro, è per via degli spaghetti, ma il pepe è nero e l’aglio lo trova nel letto del titolare, ammesso e non concesso che abbia un letto” e poi si mette a ridere senza un motivo. Manlio trascorre in questo modo il pomeriggio intero, tra lo spaghetto e un singolo bocconcino di cordonblè impanato al guardaroba con farina di lupini e guarnito in soffitta con salsa di carambola, gustato su delle vecchie armature medievali traballanti, tra una riduzione di litchi Valguarnera, da zuccherare di glassa di carrube proprio alla cassa dove, scandalo, hanno finito il Grammarniè. Il pasto termina poi con un cannolo da ricondurre alla normalità tra la sala da biliardo, dove il maestro scova la cialda, il ripostiglio che cela la ricotta, e il balcone con la trifora dove il vento porta via quasi tutta la granella. Un po’ sorpreso dal pasto e attaccato da un principio d'ulcera, Manlio fa in tempo a dire tra sé e sé con molta indignazione: “Che vita smodata fanno questi ricchi!”. Dopo però, d’un tratto, prendendo finalmente fiato da un’apnea notturna, si risveglia sudato nel suo letto, a casa sua, nel cuore dell’afosa e terribile pianura. E solo allora, quand’è di nuovo cosciente, pensa malinconico a quanto si dorma male a Piovelagna, forse per colpa del gas serra, oppure per i ritmi di quella vita frenetica, oppure ancora, semplicemente, perché una volta smarrita la propria latitudine, non se ne trova più una adatta per il resto della vita.